Estero

La vittoria a metà di Bibi, fuori dal summit a Sharm

13 ottobre 2025
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Uno scenario all'insegna del trionfalismo, esaltato nei proclami di reciproca amicizia eterna esibiti coram populo, alla Knesset, da Donald Trump e Benyamin Netanyahu, dopo due anni di sangue e tenebra agli occhi del mondo: anni di "orrori e sofferenze", nel verdetto di un alleato come Keir Starmer, consumatisi fra le macerie della Striscia di Gaza.

Questo doveva essere e questo è stato il copione interpretato dal primo ministro israeliano nella giornata della liberazione degli ostaggi sopravvissuti a un'interminabile cattività nelle mani di Hamas. Costretto tuttavia a lasciare il centro del palco al presidente-magnate degli Usa: "Il migliore amico che Israele abbia mai avuto", come si è affrettato a omaggiarlo, dando voce al sollievo collettivo della sua gente.

Parole dietro le quali si nasconde del resto anche qualche segnale di distinguo. Testimoniato dalla rinuncia annunciata in extremis dal medesimo 'Bibi' alla cerimonia del vertice collettivo di Sharm El-Sheik, in Egitto, dove inizialmente la sua presenza era stata confermata sulla scia delle pressioni esercitate proprio da Trump: nell'ambito di una telefonata con il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, nella quale l'inquilino della Casa Bianca aveva spinto il premier d'Israele a inserirsi.

Ufficialmente la disdetta è stata motivata nella velina dell'ufficio di gabinetto di Netanyahu con gli impegni legati alla festività ebraica di Smichat Torah, come se fosse qualcosa saltata fuori all'improvviso dal calendario. Scusa platealmente fittizia nell'opinione di quasi tutti gli analisti, commentatori britannici in testa: convinti che in realtà il forfait sia dipeso da un lato dall'opposizione di alcuni leader di Paesi musulmani invitati, a cominciare dal gran rifiuto del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, mediatore chiave dell''accordo Trump' per Gaza assieme all'emiro del Qatar e a Sisi; e dall'altro sia stato colto al volo da Bibi come un modo per sfuggire alla prospettiva di dover stringere la mano al presidente palestinese Abu Mazen. In barba alla propria retorica personale o a quella del suo partito (il Likud), per non parlare dei ministri più oltranzisti della coalizione del governo d'estrema destra che egli presiede.

Il tutto in un contesto in cui - a leggere bene - non è mancata neppure qualche frecciata esplicita da parte di The Donald verso "l'amico". Elogiato ad alta voce per il suo "coraggio" alla Knesset, ma anche sfiorato da un paio di potenziali presagi di benservito: come quando Trump ha sollecitato la grazia rispetto alle accuse giudiziarie che da tempo pendono su di lui, come a volergli garantire un pensionamento senza rischi di galera in caso d'uscita di scena; o ancora quando lo ha invitato a essere "più carino" nei riguardi di Yair Lapid, esponente centrista d'opposizione, arrivando quasi a incoronare quest'ultimo per il futuro con il titolo di "very, very nice guy".

Uno sdoganamento e una certificazione di affidabilità, se non un endorsement in piena regola, che non ha certo impedito a Netanyahu e ai suoi di contribuire all'ovazione riservata dal Parlamento all'ospite e vitale patrono americano. Ma che sembra avere il sapore d'un mezzo avvertimento sulla richiesta di far tacere le armi per davvero, accettando l'idea di "non essere più in guerra". Monito condito dalle sottolineature sui meriti che Trump ha poi attribuito a se stesso a chiare lettere per aver imposto alla fin fine "a Bibi" di fermarsi, di smettere di "combattere, combattere, combattere e uccidere, uccidere, uccidere".

In un contesto nel quale - ha rincarato con un ultimo tocco pungente - "le cose si stavano mettendo un po' male" per Israele. Schierato di fatto da Netanyahu in guerra con il mondo intero: un nemico che "non si può sconfiggere, perché prima o poi il mondo vince".