Trump oscilla tra diplomazia e supporto militare mentre le tensioni con l'Iran aumentano
Netanyahu ha trascorso più di un decennio ad avvertire che è necessario un assalto militare su larga scala prima che l'Iran raggiunga il punto in cui sarebbe in grado di costruire rapidamente un'arma nucleare. Tuttavia, aveva sempre fatto marcia indietro dopo che diversi presidenti americani, timorosi delle conseguenze di un nuovo conflitto in Medio Oriente, gli avevano comunicato che gli Stati Uniti non avrebbero partecipato a un attacco. Stavolta, secondo le valutazioni dell'intelligence americana, Netanyahu si stava preparando non solo a un attacco limitato contro le strutture nucleari, ma a un'operazione molto più ampia, che avrebbe potuto mettere in pericolo l'intero regime iraniano — ed era disposto ad agire da solo. Queste informazioni hanno posto il presidente Trump di fronte a scelte difficili, cambiate nel corso degli ultimi mesi, dal tentativo diplomatico alla minaccia ora di un possibile intervento Usa.
Si era impegnato in un'iniziativa diplomatica per convincere l'Iran a rinunciare alle sue ambizioni nucleari, e aveva già respinto, ad aprile, un tentativo di Netanyahu di persuaderlo che fosse giunto il momento per un attacco militare. Durante una telefonata tesa a fine maggio, Trump aveva nuovamente messo in guardia il leader israeliano contro un attacco unilaterale che avrebbe mandato all'aria i negoziati. Ma nelle settimane successive, per i funzionari dell'amministrazione Trump era sempre più evidente che forse stavolta non sarebbero riusciti a fermare Netanyahu, secondo le testimonianze di figure chiave coinvolte nelle deliberazioni e di altre persone a conoscenza dei fatti. Al contempo, Trump cominciava a perdere la pazienza per la lentezza dei negoziati con Teheran e iniziava a pensare che potessero non portare a nulla. Contrariamente alle affermazioni israeliane, i vertici dell'amministrazione americana non erano a conoscenza di nuove informazioni che indicassero una corsa iraniana alla bomba — elemento che avrebbe potuto giustificare un attacco preventivo. Ma, vedendo che probabilmente non sarebbero riusciti a dissuadere Netanyahu e che non avevano più il controllo degli eventi, i consiglieri di Trump cominciarono a valutare alternative. All'estremo di una possibile risposta c'era l'idea di restare a guardare e decidere come agire solo dopo aver capito quanto l'Iran fosse stato indebolito. All'altro estremo, c'era l'ipotesi di unirsi a Israele nell'attacco militare, spingendosi forse fino al cambio di regime a Teheran. Trump ha scelto una via di mezzo, offrendo a Israele un supporto ancora non rivelato da parte dell'intelligence americana per condurre l'attacco, e aumentando poi la pressione su Teheran perché concedesse subito qualcosa al tavolo dei negoziati, oppure affrontasse ulteriori offensive militari. Cinque giorni dopo l'attacco israeliano, l'atteggiamento di Trump continua a oscillare. All'inizio l'amministrazione ha preso le distanze dai raid, poi ha assunto un tono più favorevole man mano che i primi successi militari di Israele diventavano evidenti. Ora Trump sta seriamente valutando l'invio di aerei americani per rifornire in volo i jet da combattimento israeliani e colpire il sito nucleare iraniano sotterraneo di Fordo con bombe da 30.000 libbre — una svolta clamorosa rispetto alla sua posizione di soli due mesi fa, quando si opponeva a qualsiasi azione militare finché c'era una possibilità di soluzione diplomatica.