Michele Brunelli, professore di Storia e Geopolitica dell’Asia: Bibi, impopolare all’estero, tenta il tutto per tutto. Trump fa buon viso a cattivo gioco
L’attacco israeliano all’Iran è diventato una vera guerra tra potenze, con bombardamenti israeliani su infrastrutture strategiche e morti eccellenti ai vertici del programma nucleare, del governo e dell’intelligence e perfino della Tv di Stato iraniana, a cui l’Iran risponde colpendo Tel Aviv, Haifa e altre strutture. L’escalation è stata improvvisa ed è ancora estremamente complesso interpretarne le cause e le prospettive. Ne abbiamo parlato con Michele Brunelli, professore di Storia e Geopolitica dell’Asia all’Università degli Studi di Bergamo, esperto di politica iraniana e conoscitore diretto del Paese.
Professore, le motivazioni di fondo del conflitto Israele-Iran e, in particolare, la questione nucleare, sono note e radicate nel tempo. La domanda è: perché proprio adesso? Perché questa tempistica, questa escalation con queste modalità?
Io vedrei due spiegazioni principali. La prima è legata a una finestra di opportunità militare che si è aperta per Netanyahu, e più in generale per il governo israeliano, proprio in questo momento. Come è noto Netanyahu è stato primo ministro sei volte, e per sei volte è stato sempre intransigente verso la Repubblica Islamica. Trump aveva dato un ultimatum di 60 giorni ai negoziatori iraniani per raggiungere un nuovo accordo nucleare, e proprio al sessantunesimo giorno Netanyahu ha deciso di attaccare. Non credo sia un caso: questa coincidenza di date sembra confermare l’intenzione di sabotare un piano di stabilizzazione del Medio Oriente fortemente voluto dall’Arabia Saudita.
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Benyamin Netanyahu
Che ha un ruolo fondamentale nello scacchiere.
Dobbiamo mettere tutto in prospettiva: l’Arabia Saudita da anni lavora a questa stabilizzazione, di cui un accordo sul nucleare iraniano sarebbe un punto fondamentale. Da un lato è interessante notare come dopo il 7 ottobre 2023 la stampa saudita, non certo tra le più libere del mondo, sia stata a dir poco tiepida nel criticare le azioni di Israele su Gaza. Questo perché, Netanyahu stava facendo qualcosa che era nell’interesse della sua visione di equilibrio nel Medio Oriente, eliminando Hamas e quindi l’influenza dei Fratelli Musulmani. Dall’altro, attraverso gli accordi di Pechino, col ruolo fondamentale di una figura come l’ex ministro della Difesa iraniano Ali Shamkhani, i sauditi stavano facendo un vero sforzo per riallacciare le relazioni con l’Iran. A Israele questo non è mai andato bene, come Trump non ha mai accettato che l’Iran rientrasse a pieno titolo tra i protagonisti del sistema regionale, tanto che, una volta arrivato alla Casa Bianca, si ritirò unilateralmente dagli accordi di Vienna voluti da Obama. La seconda spiegazione è di natura politica interna: Netanyahu – conscio del fatto che la sua figura è percepita oggi ai minimi storici a livello internazionale – ha pensato di non avere più nulla da perdere, e ha deciso di trasformare l’aura negativa di cui gode in un’opportunità per il suo Paese. Allora ha deciso di colpire, sfruttando la situazione, e immaginando che i leader occidentali avrebbero dovuto ricompattarsi dalla sua parte.
L’obiettivo di questa operazione è principalmente frenare il programma nucleare iraniano o pilotare la caduta del regime?
Da ciò che emerge, non credo che lo scopo principale dell’attacco sia distruggere completamente il programma nucleare iraniano – sarebbe molto complesso, con impianti che si trovano tra gli 80 e i 100 metri sotto terra come Fordow – ma piuttosto rallentarlo il più possibile. Ma c’è un secondo obiettivo, che risulta essere in realtà quello primario: la caduta definitiva del regime iraniano – una strategia di “regime change”. La rimozione di quel regime degli ayatollah che Israele ha sempre visto come una minaccia esistenziale.
Quanto è realistico questo ipotetico “cambio di regime”?
Prima dell’attacco, lo scenario più probabile per la successione di Ali Khamenei, quando fosse morto, era quello del tentativo di tenere il potere da parte di suo figlio Mojtaba, che però i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, così come alti esponenti dell’ala conservatrice e di parte del Clero, non hanno mai visto come un leader adeguato. Ci si chiedeva se sarebbero intervenuti, se avrebbero tentato un colpo di Stato. Oggi, però, dopo che Israele ha decapitato proprio i quadri dei Pasdaran, gli unici che avrebbero potuto prendere il potere e rovesciare la successione dall’interno, i margini per azioni interne si sono ridotti. E, se Khamenei fuggisse (si parla di un salvacondotto in Russia) il Paese probabilmente precipiterebbe nel caos e forse addirittura in una guerra civile: i Pasdaran, senza il leader riconosciuto, hanno tutto da perdere – economia, potere, la vita stessa – e potrebbero alzare le barricate. La situazione è molto complessa e instabile, però una cosa possiamo dirla: anche in caso di cambio di regime, non è affatto detto che chi venisse al posto degli ayatollah rinuncerebbe completamente al programma nucleare. A meno di non avere un regime completamente filo-occidentale e anche filo-israeliano. La bomba atomica non è fatta per essere usata, serve a rinsaldare i regimi o a garantirne la sopravvivenza contro eventuali invasioni. Averla fa comodo a chiunque. Questo potrebbe essere un potenziale errore di calcolo da parte di Israele.
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Un iraniano davanti a un cartellone con i volti di Khamenei e Khomeini
E l’opposizione di piazza? Potrebbe interpretare questo attacco come un’opportunità per abbattere il regime, oppure rischiamo un ricompattamento sotto la bandiera nazionalista?
È una domanda fondamentale. Gli iraniani hanno un forte senso nazionale, come si è visto dall’invasione irachena nel 1980. Perciò il conflitto può spingere molti a unirsi in difesa della nazione. Tuttavia c’è sicuramente una parte che potrebbe vedere in Israele un “liberatore” capace di dare una spallata al regime. Le proteste di piazza degli scorsi anni sono state sostanzialmente pacifiche, sebbene represse con ferocia dal regime. Se la situazione dovesse precipitare forse potrebbero diventare violente, ma resta un problema fondamentale: non sono finora riuscite a esprimere una vera leadership politica. Per il momento da quel movimento non emerge nessuno che possa realisticamente prendere il posto di Ali Khamenei.
Trump secondo lei era d’accordo con Netanyahu fin dall’inizio o sta facendo buon viso a cattivo gioco?
Sta facendo buon viso a cattivo gioco. Io credo che lui fosse intenzionato a negoziare davvero con l’Iran per una volta, per stabilizzare il Medio Oriente e anche per compiacere l’Arabia Saudita, con i suoi enormi investimenti. Quando Israele ha fatto questa mossa a sorpresa, lui ha scelto di capitalizzare il risultato potenziale.
In Occidente si dice spesso che l’Iran è molto più isolato sul piano internazionale di qualche anno fa, e questo crea la finestra di opportunità per questo attacco. Quanto c’è di vero?
La svolta è stata nel 2020, l’anno del Covid-19. L’Iran era parte di un triangolo strategico con Russia e Turchia, soprattutto in chiave anti-Stato Islamico. Poi Erdoğan in qualche misura si sfilò, ma rimase un asse molto importante con Putin, soprattutto rispetto alla Siria. Quello fu l’apice dell’influenza iraniana anche a livello di soft power, la Repubblica Islamica era stata capace di capitalizzare un’estesa influenza con la cosiddetta “mezza luna sciita” in Siria, Libano, Yemen. Dal 2020, però, con la caduta dell’Isis anche per gli Assad la presenza iraniana in Siria ha iniziato a essere meno influente. La pandemia è stata una catastrofe sanitaria e l’economia è andata in grande difficoltà, anche perché Trump aveva fatto saltare gli accordi sul nucleare portati avanti da Obama. L’Iran è diventato più isolato e vulnerabile, tanto che Pezeshkian, appena eletto, ha avviato aperture verso l’Occidente e ha tentato di riaprire il discorso dell’accordo sul nucleare per rivitalizzare un’economia ormai asfittica.
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Trump a Riad davanti a una bandiera saudita
Dal punto di vista del diritto internazionale, questo attacco è giustificabile o segna un collasso del principio di sovranità degli Stati?
Non sono un giurista, ma un attacco preventivo viola chiaramente la sovranità di uno Stato e non ha nulla a che fare con il diritto internazionale. Rientra nella stessa logica dell’attacco a sorpresa all’Egitto del 1967, che portò alla Guerra dei sei giorni. Sono 15 anni che si dice che l’Iran è sul punto di avere la bomba atomica, il discorso ricorda molto i pretesti che si usarono per la guerra in Iraq, contro Saddam Hussein, con le armi di distruzione di massa. Dal punto di vista del diritto internazionale è sicuramente un atto non giustificato.
Si rischia un allargamento ad altri Paesi? E un’escalation nucleare?
Penso che un allargamento su scala regionale sia per il momento improbabile: all’Iran non conviene inimicarsi Arabia Saudita o Emirati, dopo il grande sforzo per ristabilire canali diplomatici ed economici. Quanto alla deterrenza atomica, a mio parere il rischio che qualcuno utilizzi un’atomica rimane basso: l’Iran non vuole certo l’atomica per colpire gli israeliani. Il problema è che nel momento in cui Teheran conseguirà la propria capacità nucleare, le 80-100 testate nucleari israeliane diventeranno perfettamente inutili, sempre per il concetto di distruzione reciproca assicurata, una delle dottrine fondamentali della Guerra fredda. O come, oggi tra Stati Uniti e Russia, tra Cina e India o tra India e Pakistan.
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Un sito nucleare iraniano dopo i bombardamenti
A proposito della Cina. Può incidere a favore dell’Iran, e se sì come?
La Cina mantiene una postura pragmatica: la sua preoccupazione oggi può essere quella delle forniture, del petrolio, e dei propri investimenti: è la Cina che ha costruito la metropolitana a Teheran. Un intervento militare cinese è ovviamente da escludere, mentre un ruolo diplomatico è possibile: la Cina potrebbe proporsi come mediatore, allineandosi con il suo approccio culturale e commerciale.
Secondo lei questo sarà un conflitto lungo o si giungerà presto a un negoziato?
Anche prima del 7 ottobre 2023 si pensava che, anche in relazione a Gaza, Israele non fosse in condizione di combattere guerre di lungo periodo, ma oggi il quadro è cambiato. Se gli obiettivi sono la rimozione del regime e il rallentamento del programma nucleare, potremmo trovarci davanti a un conflitto di medio periodo e soprattutto dai risvolti incerti, come del resto afferma lo Stato maggiore israeliano, al quale per il momento dobbiamo attenerci per le dichiarazioni. La fuga o la morte di Khamenei potrebbe ovviamente rimettere in discussione tutto.