La comunità internazionale si mobilita per fornire aiuti mentre il Paese affronta distruzione e instabilità politica
Nel Myanmar devastato dal terremoto del 28 marzo, dove ancora si scava tra le macerie alla ricerca di improbabili sopravvissuti, è calato il silenzio per un minuto, segnato all'inizio e alla fine dal suono delle sirene in memoria dei morti. Sono oltre 2.700 quelli finora accertati secondo le informazioni diffuse dalla giunta militare al potere, che già proietta oltre i 3.000 il bilancio definitivo. Migliaia anche i feriti, almeno 4.500, alcuni dei quali in gravi condizioni, mentre l'Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) calcola in un milione e 600 mila le persone rimaste senza un riparo.
Erano le 12.51 nel Paese asiatico già martoriato da una guerra civile, poco dopo le 8 di mattina in Italia, quando gli abitanti di Mandalay, Naypyidaw, di tutto il Paese hanno visto case, palazzi e templi antichi sgretolarsi come castelli di sabbia travolgendo cose e persone. Tra pochi giorni il Paese avrebbe dovuto essere in festa per il Capodanno birmano, una ricorrenza molto sentita che nella tradizione rappresenta rinascita e buoni propositi. Nulla di più lontano dal paesaggio spettrale delle città birmane, dove proseguono, fra l'altro, le scosse di assestamento. È lutto nazionale, e i più fortunati celebreranno la ricorrenza nei pochi rifugi attivi.
"Non c'è cibo disponibile, nemmeno a lunga conservazione, né negozi aperti. A Sagaing è crollato circa l'80% degli edifici, racconta il direttore di una ong locale. "La gente, sconsolata, resta seduta davanti alla propria casa danneggiata". L'Onu parla di una crisi umanitaria senza precedenti.
In questo contesto cominciano ad arrivare gli aiuti internazionali, non senza difficoltà, per via delle strade distrutte e di un conflitto che non si placa neanche con il terremoto. La giunta, dice l'Onu, collabora, anche se, ammette il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite Marcoluigi Corsi, "c'è sempre una politicizzazione degli aiuti". "Gli attacchi militari della giunta devono cessare. Gli ostacoli agli aiuti devono essere rimossi. I giovani non devono temere l'arresto o la coscrizione obbligatoria. La comunità internazionale deve fornire un'assistenza più urgente. Ora!", insiste il relatore Onu per i diritti umani in Myanmar Tom Andrews.
Dai luoghi colpiti arriva, nonostante tutto, qualche segnale di speranza: una donna di 63 anni è stata tratta in salvo a Naypyidaw dopo aver trascorso 91 ore sotto le macerie. Salve anche la maggior parte delle suore cattoliche della Riparazione, da quasi due secoli attive nel Paese. "La maggior parte delle nostre sorelle sta bene dice la madre superiora Valentina Pozzi ad AsiaNews - ma ancora non siamo riuscite a raggiungere tutte". "Un miracolo - dice - come pure il fatto che i cristiani di Naypyidaw si sono salvati perché erano alla Via Crucis. Molti di loro rientrando non hanno più trovato la casa".
"Ora è il momento di far arrivare gli aiuti necessari", è l'appello dell'Onu. Qualcuno si è già mosso. Per ora, gocce d'acqua nel mare. Tra gli altri, la Conferenza episcopale italiana che ha destinato al Myanmar 500 mila euro, parte dei fondi dell'8 per mille. "La necessità più urgente è quella di allestire rifugi e beni di prima necessità. È anche essenziale prevenire i rischi associati agli ordigni inesplosi" - avverte l'Unhcr - come pure "è necessario monitorare i rischi di separazione familiare, la tutela dei minori e la violenza di genere". E scongiurare l'incombente rischio epidemie.