In Piazza del Popolo in 50mila si sono riuniti per sostenere la pace e la convivenza civile. Sorrisi e bandiere contro ‘tutti i gradassi del mondo’
“Ma quanta gente! Chi gioca oggi?”, chiede un’anziana sorpresa dalle tante bandiere blustellate che affollano la metropolitana. “Nessuno”, risponde un signore che dopo qualche secondo di silenzio aggiunge: “Stiamo andando in piazza per l’Europa”. Lei ribatte: “Ah, ecco. Bello. E che vuol dire?”. Già, che vuol dire? Tutti tacciono. La domanda rimbalza per il vagone, schivata da tutti, e ti sembra quasi vederla cadere a terra, troppo complicata da maneggiare. Siamo alla stazione di Arco di Travertino, Roma Sud, a dodici fermate da Piazza del Popolo. Tecnicamente giocherebbe anche qualcuno: Italia-Irlanda, per il Sei Nazioni di rugby. Ma allo Stadio Olimpico. Ben oltre Piazza del Popolo. Se qualche appassionato della palla ovale fosse su quel treno sarebbe in forte ritardo. Infatti non ci sono tifosi italiani né irlandesi. C’è solo questa strana tifoseria di ideali nobili e multiformi raccolta per un giorno sotto la bandiera dell’Unione europea. Gente che sa dove sta andando e un po’ anche perché, ma non del tutto. Insieme a persone con altri perché.
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Enigmistica pacifista
Hanno però risposto tutti all’appello di Michele Serra, capopopolo suo malgrado. Che un giorno ha scritto due righe (“Perfino un po’ banali”, ha spiegato poi lui) sulla possibilità di scendere in piazza per ribadire l’unicità e l’orgoglio di essere europei, democratici, liberi, in un momento in cui si sta stringendo la morsa di Trump e Putin. Il giorno dopo ha ricevuto centinaia di mail. Alla fine, spinto (in forma privata) da alcuni partiti, ha capito che non si poteva più tornare indietro e che qualcuno in Piazza del Popolo avrebbe trovato: alla fine c’erano 50mila persone. Tante, tantissime. A tal punto che poco dopo l’inizio hanno dovuto chiudere, per motivi di sicurezza, gli accessi alla piazza.
Oltre alla bandiera dell’Europa, grande protagonista dell’evento e sventolata da centinaia di persone, c’erano quelle della pace e di tre Paesi che a vari livelli hanno paura di perdere la loro libertà: Ucraina, Georgia e Romania. Nonostante il grande entusiasmo, la manifestazione inizia con una nota stonata. Anzi, più d’una. La colpa è dei musicisti che suonano “L’Inno alla Gioia”. Uno strazio ben riassunto dalle parole di un romano a fine esibizione: “Ahò, nun ve gasate che v’applaudimo non per come avete sonato, ma perché finalmente ve n’annate’.
A rimettere le cose a posto ci pensa Michele Serra, il primo a comparire sul palco: “Siamo in tanti. Evviva! Siamo in tanti perché siamo popolo. Popolo è una parola che negli ultimi anni è stata sottratta alla democrazia e alla gentilezza. E invece è la più democratica delle parole. Perché una piazza europea non può che essere una piazza di persone che, su parecchie cose, non la pensano allo stesso modo. Ognuno di voi potrebbe avere accanto qualcuno che vota per un altro partito. O non vota affatto. Che crede in un altro dio, oppure in nessun dio. Che ama la pace, ma pensa di difenderla in modi differenti. In un mondo che sembra in frantumi, una piazza che unisce persone e idee diverse è uno scandalo. Questo scandalo ha un nome. Si chiama democrazia. Non è molto di moda, nel mondo, la democrazia”. E giù applausi.
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Anche Elly Schlein sotto il palco
Da lì in poi saranno pochi gli interventi all’altezza. Spiccano l’attore Fabrizio Bentivoglio, che legge il discorso di Pericle agli ateniesi pronunciato nel primo dei vent’anni di guerra contro Sparta. Democrazia contro oligarchia: “Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così... ci è stato insegnato di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così...”.
E poi lo scrittore Antonio Scurati, che dopo l’esercizio di stile futurista uscito su Repubblica, trova la giusta misura: “Ripudiare la guerra non significa essere inermi. Noi non siamo gente che rade al suolo le città. Non massacriamo i civili e non deportiamo i bambini e li usiamo come riscatto... Non deportiamo i migranti in catene a favore di telecamere. Non umiliamo in mondovisione il leader di un Paese che da tre anni lotta per la sopravvivenza. Essere contro la guerra non significa rinunciare a lottare. La democrazia è sempre lotta per la democrazia”.
Prima e dopo è perlopiù una fiera di banalità, buoni sentimenti in saldo, slogan senza forza e un’età media troppo alta sia sul palco che sotto: a mostrare che un ricambio generazionale non c’è, anche perché chi sta sul palco non vuole farsi da parte. Corrado Augias, 91 anni, applaudito come una rockstar; Mauro Pagani, 79 anni, che canta “Creuza de mä”, ma senza abbastanza voce ed energia per farlo. Incapace di creare empatia con un qualunque giovane che avesse deciso di affacciarsi in Piazza del Popolo. Poi c’è Roberto Vecchioni (82 anni) con figlia 50enne al seguito (è pur sempre il Paese del “tengo famiglia”) che almeno chiede “scusa ai giovani”, aggiungendo che ora toccherà a loro “rimediare alle cazzate che abbiamo fatto”, raccogliendo un applauso poco convinto dalla platea incanutita circondata da vignette di Altan e immersa in canzoni del secolo scorso.
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Trump di cartapesta
Ogni tanto compare qualche giovane a dare un’idea di futuro. È il caso della giornalista afghana Rahel Saya, 24 anni, che faceva coraggiosi reportage dal suo Paese finché il ritorno dei talebani le ha reso la vita impossibile. Nell’agosto del 2021 è riuscita a salire su uno di quegli aerei a cui si attaccavano i disperati in fase di decollo e ad arrivare in Italia. Parla l’italiano meglio di molti colleghi madrelingua e di molti politici che stendono tappeti rossi ai potenti e poi con i poveri cristi fanno la faccia cattiva.
Sul palco e sugli schermi si susseguono messaggi di scrittori, artisti, comici, sindaci. I segretari dei partiti d’opposizione, da Elly Schlein (Pd) a Carlo Calenda (Azione), stanno in disparte. Parlano invece certi cartelli: “Fuck Putin”, “Ucraina libera in una libera Europa”, “Meno armi, più Europa”. Su un cartoncino blu, di quelli che puoi trovare appesi in una scuola, c’è scritto “Non lasciamo il mondo ai gradassi”. Con quell’ultima parola così esatta e così rétro.
Gianrico Carofiglio cita il Gramsci di “Odio gli indifferenti”. Claudio Bisio, l’uomo di spettacolo messo a dirigere il traffico sul palco, ricorda che le dittature in Europa non si sono fermate con Hitler e Mussolini: hanno resistito per anni in Portogallo, in Spagna e in Grecia. Insomma, nessuno è immune. Nessuno è mai davvero al sicuro. E la democrazia va difesa. “A democrasia xe bea perché ognuno può far ciò che vuole”, dice un signore veneto agli amici.
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Bandiere
Intanto Renato, tranviere in pensione, vede un barboncino nero con una medaglietta al collo con la bandiera europea. Chiede al padrone se può fare una foto. “Certo. Fai un muso europeo, abbaia europeo”. Ridono. “Ora la mando a mio cognato fascista”, dice Renato.
Man mano che la gente se ne va, qualcosa rimane: l’idea di una piazza orgogliosa, onesta, perbene. Che andrebbe rinnovata, rivitalizzata, assecondata da una politica meno cialtrona. Una piazza eterogenea che però ha avuto il grande merito di aver ricalcato, evidenziandola, la linea sempre più sbiadita del perimetro di cosa siamo, in quanto europei, ma soprattutto di cosa non siamo e non vorremo mai essere. Di questi tempi, è gia qualcosa.