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Il sogno democratico degli studenti serbi

Reportage fotografico dal Paese balcanico, dove da quattro mesi la stabilocrazia di Vucic è messa alle strette dalla pacifica protesta di una generazione

La protesta degli studenti contro il governo serbo a Kragujevac
(Matteo Trevisan)

C’è fame di democrazia in Serbia. Di quella vera, conquistata nel 2000 con la rivoluzione che ha spodestato Milosevic, ma trasformata in democratura dal 2012, con l’affermazione del Partito progressista del presidente Aleksandar Vucic, che del tiranno era stato per due anni ministro dell’Informazione. Una fame che da mesi domina strade e piazze, con proteste diventate oceaniche nelle maggiori città del Paese. Protagonisti principali di un movimento che per la sua forza, con le dovute proporzioni, ricorda il Maggio francese del ’68, sono loro: gli studenti. Nelle loro rivendicazioni, il sogno di una società diversa.


Matteo Trevisan

A cominciare dall’endemico problema della corruzione, primo e principale indiziato per il crollo all’appena restaurata stazione ferroviaria di Novi Sad il 1° novembre scorso, come ricorda Nikolina. La tragedia, costata la vita a quindici persone e la carriera politica a quattro ministri fra i quali il premier, ha riacceso un malcontento che da anni serpeggia nella società. A causa dell’odio e della violenza, evidenzia Iva, in un Paese che è ai vertici mondiali – dopo gli Stati Uniti – per possesso privato di armi da fuoco. Dietro le statistiche, due stragi che ricordano quelle americane, che due anni fa hanno causato altre sollevazioni popolari. Per Mihailo, c’è poi il brutalismo edilizio, che sta sventrando il volto di intere città in nome di uno sviluppo economico basato sull’ultraliberismo. Tasto delicato, poi, quello toccato da Vladimir: il disprezzo per il proprio Paese, nato dalla vergogna per i crimini degli anni Novanta. Al di là degli ultranazionalisti, un sentimento comune in Serbia, Paese frustrato per il mancato riconoscimento internazionale delle proprie vittime e anche per questo incapace a sua volta di riconoscere integralmente quelle causate nei Paesi vicini.


Matteo Trevisan

Ma Vladimir sogna la pace. E tutti gli studenti hanno un denominatore comune: la volontà di non emigrare, ma di cambiare le cose. Non è fatto di poco conto, in un Paese che in trent’anni ha perso un milione di abitanti e in una regione storicamente votata all’emigrazione economica. E tutti i Balcani stanno osservando con attenzione gli accadimenti in Serbia. Anche con movimenti civici simili, come in Croazia e Macedonia del Nord, dove si chiede un freno al carovita. Ma gli spettatori più attenti sono sicuramente in Kosovo, l’ex provincia a maggioranza albanese che nel 2008 ha dichiarato un’indipendenza mai riconosciuta da Belgrado, e in Bosnia Erzegovina. Fulcro delle guerre degli anni Novanta, è di fatto istituzionalmente impantanata in uno status di tregua che nessuno ha mai voluto, oppure osato, risolvere. Nel trentennale degli Accordi di Dayton, a preoccupare sono le sempre più forti mire secessionistiche del presidente della Republika Srpska Milorad Dodik.


Matteo Trevisan

In molti sperano che le proteste in Serbia possano portare a cambiamenti politici. Ma, apparentemente, non l’Ue, che dall’inizio della crisi non si è praticamente schierata e che sembra tuttora appoggiare lo status quo in nome di una stabilità che si sta sempre più sgretolando. Un segnale preoccupante, in un contesto caratterizzato dall’incognita Trump. In mezzo la Gen Z serba. Gli ideali democratici dei ventenni e la loro pacifica mobilitazione stanno facendo vacillare il regime. Il 15 marzo è stata indetta a Belgrado una nuova manifestazione, che se dovesse toccare il milione di partecipanti come sperano gli organizzatori sarebbe la più grande di sempre. Il vento è cambiato, ma dire dove porterà è oggi quasi impossibile.


Matteo Trevisan


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