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Assalto alla Groenlandia, ultima frontiera delle terre rare

Gli Usa ci provarono una prima volta nel 1867. Durante la Guerra Fredda fu per motivi di sicurezza, ora è una questione di soldi in chiave anti-cinese

Una bandiera groenlandese
(Keystone)
3 marzo 2025
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Quello di Donald Trump è almeno il quarto assalto alla Groenlandia da parte degli americani. Prima di lui ci provò Andrew Johnson, nel 1867. Gli era appena riuscito l’acquisto dell’Alaska dalla Russia, così tentò il bis, ma le trattative si arenarono subito. Nel 1910, sotto la presidenza Taft, gli americani offrirono alla Danimarca di scambiare la Groenlandia con le isole di Mindanao e Palawan, nelle Filippine. La fantasia non gli mancava, ma si beccarono un no. Poi fu la volta di Harry Truman, che nel 1946 offrì a Copenaghen 100 milioni di dollari in lingotti d’oro. Come nei quiz a premi della tv.

Se oggi l’obiettivo di Trump, principalmente, sono le terre rare, il petrolio, il gas naturale e un’espansione dei confini marittimi, così da sfruttare al meglio, con lo scioglimento dei ghiacci, le famose rotte artiche, all’epoca l’interesse era prettamente militare. Con la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio della Guerra Fredda, avere un territorio ampio e quasi disabitato più vicino all’Europa e all’Unione Sovietica su cui installare basi militari sembrava una buona idea a Washington e dintorni. Una volta che i danesi rifiutarono il denaro, gli americani tentarono uno scambio con un pezzo di Alaska, Point Barrow, che una ventina d’anni dopo si sarebbe rivelato seduto sul più grande giacimento di petrolio di tutti gli Stati Uniti.


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Partita di calcio su un iceberg

Le basi militari

In qualche modo, con la nascita della Nato (1949) e un accordo militare (1951), gli americani riuscirono a posizionare un base nel nordest dell’isola, a Thule, e un’altra più a sud, a Kangerlussuaq. La prima c’è ancora e ha cambiato nome in Pituffik (che in lingua inuit vuol dire “Il posto dove si tengono legati i cani”). Lì opera il Norad, il sofisticato programma di avvertimento aerospaziale americano. La base di Kangerlussuaq è stata invece abbandonata un quarto di secolo fa (anche se resta un presidio della Guardia Nazionale aerea).

Kangerlussuaq compare, per chi arriva dall’Europa, dopo un’ora abbondante di volo sopra i ghiacci groenlandesi. Sembra di atterrare in un luogo costruito con i lego: tanti cubotti colorati disposti in modo geometrico. Non sembra nemmeno un posto dove si possa vivere: invece ci sono 700 abitanti.


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Aurora boreale a Nuuk, la capitale

A pochi chilometri sorge anche il campo da golf permanente (già, permanente, perché d’estate, qua e là ne nascono di improvvisati) più a nord del pianeta. In altri Paesi varrebbe almeno una targa, ma nessuno, a Kangerlussuaq, si è mai preso la briga di farne una. L’aeroporto internazionale era l’unico hub da cui poi partivano altri velivoli più piccoli diretti nelle varie città dell’isola. Da un anno è in funzione anche il rinnovato scalo della capitale, Nuuk (19’800 abitanti). Lì è atterrato, meno di due mesi fa, un grande aereo blu con la scritta Trump: Donald non si era nemmeno insediato e il figlio Donald Jr. era andato lì per sondare il terreno. A differenza dei predecessori alla casa Bianca, Trump non vuole né comprare né scambiare la Groenlandia. La vuole e basta.

A Nuuk, sotto il ghiaccio che scompare sotto i colpi del riscaldamento globale hanno scoperto di avere l’oro. E ora c’è chi offre il giro turistico “Gold&Fish”: oro e pesci. Ancora più a sud, nella punta estrema meridionale, dalle parti di Narsarsuaq, si coltivano 15 tipi di patate, carote e cavolfiori. È talmente difficile coltivarli che costano quanto i prodotti importati, a volte di più.


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Cani da slitta sul ghiaccio sciolto

L’idea di importare colture di altri Paesi non è nuova, ma risale agli anni Sessanta, quando un team di scienziati svizzeri venne a piantare i semi di alberi e fiori di tutto il mondo per vedere se attecchivano oppure no. A Kangerlussuaq si possono vedere dei microabeti dal tronco esile, alti un metro, massimo due. Loro ce l’hanno fatta, ma sono tra i pochi. La Groenlandia, famosa per i suoi iceberg, non è un Paese per alberi. Ma ciò che emerge dal suolo interessa poco agli americani, più attratti da quel che sta nel sottosuolo: le terre rare, l’ultima frontiera.

L’oro del futuro

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, noti per le loro proprietà, appunto rare, e indispensabili, per la produzione di tecnologie avanzate. Dalla costruzione di smartphone e computer ai magneti delle turbine eoliche, dalle batterie dei veicoli elettrici ai sistemi missilistici, questi minerali sono considerati fondamentali sia per l’economia che per la Difesa. Ecco perché tutti li vogliono. Ecco perché tutta questa fascinazione improvvisa per una terra come la Groenlandia, i cui giacimenti di terre rare, ancora in gran parte inesplorati, corrispondono attualmente a un milione e mezzo di tonnellate. Si stima tuttavia che possano essercene di più. Già così la Groenlandia si trova al nono posto nel mondo proprio dietro agli Stati Uniti. Inglobandola, gli americani raddoppierebbero le loro riserve di terre rare. Attualmente, la Cina, che può contare su riserve pari a 44 milioni di tonnellate, domina il mercato globale, controllando circa il 60-70% della produzione mondiale e oltre il 90% della raffinazione. Una posizione quasi monopolistica che dà a Pechino un enorme potere geopolitico, poiché può limitare o usare l’export come leva economico-diplomatica nei confronti di altri Paesi: l’ha già fatto nel 2010 quando ridusse le quote delle esportazioni causando un’impennata dei prezzi.


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L’aereo di Donald Trump Jr sulla pista di Nuuk

Oggi gli Usa dipendono dalla Cina per circa l’80% delle loro importazioni di terre rare: una situazione insostenibile nella bilancia tra grandi potenze. E così, come succede a Panama con il Canale (anche quello controllato in parte dai cinesi) per i traffici marittimi, Trump punta alla Groenlandia sulle terre rare. Secondo lo United States Geological Survey, l’isola potrebbe in futuro garantire fino a 500 mila tonnellate all’anno di minerali rari con un valore di mercato superiore a quello dell’oro. Inoltre, si stima che i giacimenti groenlandesi in futuro possano coprire fino al 30% del fabbisogno globale.

La questione dell’indipendenza

Oltre alle terre rare, la Groenlandia offre un’abbondanza di oro, platino, uranio, zinco, nickel e - come detto - gas e petrolio, che prima o poi saranno il passato, ma per ora sono il presente. Lo scioglimento dei ghiacci accelerato dal cambiamento climatico non favorisce solo turismo, coltivazioni e la nascita di bizzarri campi da golf da Guinness dei primati, ma anche un accesso più facile alle miniere: meno ostacoli logistici, costi ridotti e più guadagni, a questo pensa Trump, che ha già trovato un alleato in Erik Jensen, leader di Siumut, uno dei due partiti che guidano il governo locale.

Jensen ha già dichiarato che se venisse eletto nelle imminenti elezioni anticipate dell’11 marzo, accelererebbe il processo di indipendenza attivando l’articolo 21 della legge sull’autogoverno della Groenlandia puntando a un referendum. Tuttavia, l’altro partito al governo, Inuit Ataqatigiit, di matrice ambientalista, si è mosso proprio per fermare i progetti attorno al sito di Kvanefjeld, nel sud del Paese, il secondo deposito al mondo di terre rare. Non si prevedono tempi facili da quelle parti, ma come dice un detto locale: “Il cattivo tempo non esiste, esiste solo una cattiva preparazione”.


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Manifesti elettorali a una fermata del bus