Intanto i ribelli jihadisti minacciano Hama e il Pkk scappa da Aleppo. Mentre in Libano la tregua trema: Israele risponde a Hezbollah con raffiche di raid
Dopo la tempesta della conquista di Aleppo da parte di forze jihadiste filo-turche e l’apparente calma del giorno successivo caratterizzata dall’apparizione mediatica del presidente siriano Bashar al Assad a Damasco, le pedine sullo scacchiere siriano sono tornate a muoversi in maniera frenetica, riattivando la mobilitazione di attori locali e stranieri in quasi tutti i teatri di un conflitto che appare senza fine.
Così, mentre i presidenti russo Vladimir Putin e iraniano Massud Pezeshkian hanno ribadito in un colloquio telefonico “sostegno incondizionato” all’alleato Assad, milizie sciite filo-iraniane si sono mosse dal vicino Iraq per andare in soccorso, risalendo l’Eufrate, dei governativi sul fronte di Hama, nella Siria centrale. Nelle stesse ore, l’aviazione russa e quella del regime hanno martellato le roccaforti dell’insurrezione sostenuta da Ankara, seminando panico e morte tra armati e civili nelle regioni nord-occidentali di Idlib e Aleppo. Questo mentre gli ascari di Ankara, guidati dal cosiddetto Esercito nazionale siriano, una milizia agli ordini dei servizi di sicurezza turchi, hanno costretto migliaia di combattenti dell’ala siriana del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) ad abbandonare, fucili a terra e sguardi in basso, l’enclave di Tell Rifaat e il distretto di Shahba, a nord di Aleppo. Tell Rifaat, da otto anni occupata dalle forze curdo-siriane, torna, almeno per ora, sotto il controllo di quelle fazioni siriane, arabe e sunnite. Queste nel 2016 avevano dovuto abbandonare l’area dopo la sconfitta subita contro le forze governative, russe, iraniane e curde.
Le urla di giubilo di chi torna a Tell Rifaat da “vincitore” e “liberatore”, dopo esser stato umiliato in passato, stridono con la disperazione delle famiglie curde assediate invece nei quartieri aleppini di Shaykh Maqsud e Ashrafiye. Qui circa 150mila persone, tra civili e miliziani curdi, sanno di avere i giorni contati. “È questione di giorni e manderemo via anche loro”, afferma un capo-milizia delle forze filo-turche, in riferimento ai convogli di civili e di combattenti del Pkk siriano che hanno preso la via verso Tabqa e Raqqa, oltre l’Eufrate.
Proprio in quest’area le forze russe si stanno riorganizzando, sia per evitare che l’offensiva appoggiata da Ankara possa minacciare la riva orientale del fiume e l’enclave di Manbij, al confine con la Turchia, sia per raggruppare uomini e mezzi in un altro quadrante chiave del conflitto siriano: la valle dell’Eufrate. Ma a est dell’Eufrate ci sono anche gli americani. Le forze militari Usa, presenti a sostegno del Pkk, si preparano ad attaccare sette località nella regione di Dayr az Zor da anni sotto controllo iraniano. “Gli iraniani si sono ritirati e ci prepariamo ad attaccare”, affermano leader della tribù araba dei Baggara, cooptata dalle forze curde e dagli americani in funzione anti-Teheran.
Sul terreno intanto si contano più di 500 morti da mercoledì scorso, tra cui un centinaio di civili, inclusi donne e bambini. Secondo organizzazioni umanitarie, ai 15mila sfollati dei primi giorni dell’offensiva si aggiungono altre migliaia di senza tetto nella regione di Idlib.
Per la prima volta dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, mercoledì scorso, Hezbollah ha tirato due colpi di mortaio verso una postazione militare israeliana nell’area del Monte Dov, al confine con il Libano. Rivendicando i lanci come forma di “avvertimento e risposta difensiva iniziale” alle violazioni dell’Idf, oltre che per mandare un segnale concreto sulle sue intenzioni. Israele, dove aver denunciato una “grave violazione” e promesso una “risposta forte”, in serata ha lanciato una raffica di raid in tutto il Libano provocando almeno nove morti.
L’attacco di Hezbollah è arrivato a poche ore da un altro avvertimento per Israele: l’artefice dell’intesa, l’inviato della Casa Bianca Amos Hochstein, avrebbe inviato un messaggio esortando Israele a rispettare l’accordo. Secondo indiscrezioni, a Netanyahu è stato contestato, tra l’altro, “il ritorno visibile e udibile dei droni dell’Idf nei cieli di Beirut”. La ramanzina americana si è aggiunta alle critiche di Parigi che domenica, stando ad alcune fonti diplomatiche, ha elencato 52 violazioni israeliane del cessate il fuoco. I vertici militari israeliani, da parte loro, non nascondono l’attività delle truppe. L’ufficio stampa dell’esercito lunedì ha postato un riepilogo, confermando di aver effettuato diversi attacchi in Libano nei giorni scorsi, in seguito ad azioni di Hezbollah “che hanno rappresentato una minaccia”.
Sul fronte di Gaza si è invece fatto sentire Donald Trump, con un monito soprattutto ad Hamas: se gli ostaggi non saranno liberati prima del suo insediamento alla Casa Biancao, il 20 gennaio, “il prezzo da pagare sarà terribile per il Medio Oriente e per i responsabili di queste atrocità contro l’umanità”.