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Vw, il sintomo più evidente della crisi del sistema Paese

Il modello della manifattura tedesca si è basato per decenni sull’export di prodotti di qualità a un prezzo accettabile. Ma le cose sono cambiate

Il paradigma industriale del dopoguerra non è più sostenibile
(Keystone)

I sedili dell’area Vip allo stadio di Wolfsburg sono riscaldati. Come quelli del Santiago Bernabeu e dello Stamford Bridge, ma il Vfl Wolfsburg non è né il Real Madrid né il Chelsea. Ha vinto una sola Bundesliga e la sua migliore prestazione in Europa è stata un quarto di finale, perso proprio contro il Real. Le negoziazioni tra Volkswagen e i sindacati si svolgono all’interno dello stadio, di proprietà del colosso automobilistico, che possiede la squadra di calcio, il centro congressi, il museo e il lungofiume trasformato in un percorso di guida sicura. Wolfsburg conta 120mila abitanti, la fabbrica impiega 60mila persone. La città è l’azienda e viceversa. Il salario minimo in Germania è di 14 euro l’ora, ma nel 2023 a Wolfsburg 60 minuti di lavoro venivano pagati 62 euro.

A inizio settembre sono emersi i primi segnali che la situazione fosse grave. Vw ha annunciato una ristrutturazione aziendale: chiusura di almeno un impianto in Germania. “L’industria automobilistica europea si trova in una situazione molto impegnativa e seria – ha dichiarato Oliver Blume, amministratore delegato del gruppo – il contesto economico è diventato ancora più difficile e nuovi concorrenti stanno entrando nel mercato europeo”. A novembre, nelle comunicazioni del Cda si legge che le fabbriche a rischio sono diventate tre, su dieci attive in Germania. Il passo che ha reso reale, agli occhi dei tedeschi, la crisi è stata la rescissione di contratti nazionali: non saranno più validi dal primo gennaio. Sei mesi dopo, l’azienda potrà iniziare a licenziare: 120mila posti di lavoro sono a rischio, più l’indotto. Volkswagen ha circa 300mila dipendenti in Germania e 680mila nel mondo. Il numero è cresciuto costantemente negli ultimi anni: dal 2013 è aumentato del 17% a livello nazionale e del 21,5% a livello globale. Il gruppo comprende 12 marchi (tra cui Porsche e Lamborghini), e quasi tutti vanno meglio di Volkswagen. Anche Škoda e Cupra, in termini assoluti, generano profitti superiori rispetto alle auto con il marchio Vw. Ma l’azienda, nella sua storia centenaria, non aveva mai chiuso uno stabilimento in Germania. Quello che sta affrontando non è solo un buco di bilancio, ma un problema strutturale. E se la Vw sta male, è solo il sintomo più evidente della crisi del sistema Paese. La manifattura tedesca, per quella che abbiamo conosciuto dal dopoguerra, non è più sostenibile. Dal dieselgate, estate 2015, sono passati quasi dieci anni, e il colosso automobilistico ha cambiato quattro amministratori delegati. I numeri sono brutali. A inizio novembre sono stati presentati i dati trimestrali: -63% degli utili. “Dobbiamo lottare per evitare che i posti di lavoro vengano cancellati, perché quelli che perdiamo adesso non li riprenderemo mai più”, ha dichiarato Daniela Cavallo, presidente del Consiglio di fabbrica, che guida le negoziazioni in rappresentanza degli operai. Il sindacato è pronto a studiare un piano per pre-pensionamenti e tagli mirati, ma chiede un aumento del 7% dei salari per adeguarli al costo della vita.


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120mila posti di lavoro sono a rischio

Il costo della manodopera è solo uno dei problemi

Nei mesi a cavallo tra il 2022 e il 2023, l’inflazione in Germania ha raggiunto la doppia cifra. La ristrutturazione immaginata da Volkswagen prevede la chiusura di tre stabilimenti e il taglio di almeno il 10% dei salari. “Dobbiamo avere un piano per il futuro, per tutte le fabbriche e per tutto il settore automobilistico – ha risposto Cavallo –, non basta solo perdere posti di lavoro senza avere un piano”. Vw sta affrontando una congiuntura di eventi, e il costo del lavoro è solo uno dei problemi. Il modello della manifattura tedesca si è basato per decenni sull’assunto che l’export fosse garantito da prodotti di qualità a un prezzo accettabile. La prima variabile a cambiare è stato il costo dell’energia. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha fatto schizzare il costo del gas. Nord Stream 1 è stato chiuso, il 2 non è mai entrato in funzione. Poi, a settembre 2022, il sabotaggio delle condotte, mai rivendicato ma che diverse inchieste collegano a un gruppo di ex spie ucraine, ha reso impossibile la ripresa del flusso. Non solo l’automotive ha sofferto, ma anche il settore chimico è stato duramente colpito. Il colosso Basf da solo consumava, per i suoi impianti produttivi nel nord-ovest del Paese, tanto gas quanto quello usato da tutta la Danimarca, uno Stato con sei milioni di abitanti. Alcune aziende, in un primo momento, hanno bloccato la produzione, e poi molte hanno iniziato a delocalizzare.


Lo scoppio della guerra in Ucraina ha fatto schizzare il costo dell’energia

La dipendenza tedesca dal gas russo è un seme piantato decenni fa. Per capire il rapporto strettissimo tra lo sviluppo tedesco e le risorse siberiane, basta fare un nome: Gerhard Schröder, cancelliere federale dal 1998 al 2005. Subito dopo aver lasciato il governo, Schröder è diventato presidente del consiglio di sorveglianza di Nord Stream Ag, per poi accumulare incarichi in Gazprom e Rosneft, le due più grandi imprese energetiche russe. Non è pubblico quale sia stato il suo compenso per diventare lobbista, ma diversi economisti tedeschi hanno stimato che abbia decuplicato il suo stipendio rispetto a quello da cancelliere. Non si tratta però di una responsabilità singola. Nei 16 anni successivi, Angela Merkel non ha fatto un solo passo per ridurre la dipendenza dal gas russo. Anzi, è stato proprio durante la sua cancelleria che sono stati realizzati sia il primo Nord Stream che il raddoppio.

L’equilibrio che ha reso tutti pigri e paurosi

L’energia a basso costo permetteva alle aziende di spendere di più nella manodopera. Le imprese hanno assunto e formato addetti specializzati. Il “Made in Germany” era, ed è, considerato uno standard da battere. Berlino, forte di questo e di una politica monetaria europea fortemente influenzata dalla sua economia, ha goduto di anni e decenni di aumenti costanti delle esportazioni. Il Pil è cresciuto garantendo entrate fiscali sempre maggiori. La Germania non aveva bisogno di indebitarsi per garantire i servizi eccellenti ai propri cittadini. L’equazione era talmente bilanciata che nel 2009 Angela Merkel chiuse il suo primo mandato facendo inserire nella Costituzione il freno al debito. Si trattava di un impegno a non sforare mai lo 0,35% di deficit nel bilancio annuale. Da un lato, era una risposta alla crisi del debito scoppiata nel 2008, dall’altro c’era la certezza che la Germania non aveva bisogno di indebitarsi per continuare a crescere. In caso di emergenza, il governo ricorre a fondi extra-bilancio, decine di miliardi di euro, che vengono rastrellati sui mercati con grande facilità. Non avere debito permette alla Germania di ottenere prestiti a tassi d’interesse molto bassi. Questo equilibrio, però, ha reso i tedeschi pigri e paurosi, dal punto di vista degli investimenti. Non c’è stato per anni un piano di riammodernamento delle infrastrutture. Oggi la Germania è uno dei Paesi europei con il peggior livello di digitalizzazione. Persino il segnale internet, sia per rete fissa che mobile, è tra i meno evoluti della regione.

Prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina hanno reso difficile distinguere i segnali di un altro cambiamento epocale: la concorrenza erodeva importanti quote di mercato, non solo nell’export, ma anche all’interno della Germania. Ritorniamo a Vw. Un’auto elettrica cinese costa due terzi di una prodotta in Sassonia, e ha un sistema informatico migliore di quello tedesco. Mentre calano le vendite dei veicoli a combustione, l’elettrico tedesco non ha lo stesso appeal di una Tesla statunitense o di una Byd cinese. La situazione migliora leggermente in casa Bmw e Mercedes, ma le problematiche strutturali del modello tedesco affaticano anche qui le vendite. Il mercato cinese assorbe sempre meno la produzione teutonica e la minaccia di una guerra dei dazi, sventolata a più riprese da Donald Trump, prospetta tempi duri per la Germania.


Un’auto elettrica cinese costa due terzi di una prodotta in Sassonia

Freno al debito, il feticcio dell’austerità teutonica

A guidare il Paese, intanto, c’è Olaf Scholz, il cancelliere con l’indice di gradimento più basso dalla riunificazione. La coalizione, nata a fine 2021, aveva come suo principale obiettivo la transizione energetica. Nemmeno due mesi dopo il giuramento, la Russia ha invaso l’Ucraina e il ministro verde, Robert Habeck, ha incrementato l’estrazione di carbone e allungato la vita alle centrali nucleari. I piani del governo si basavano su investimenti che non dovevano creare debito. Il freno al debito è il feticcio dell’austerità teutonica per Christian Lindner, l’ex ministro delle Finanze. Per finanziare gli investimenti, il governo ricorreva agli extra-budget fino allo scorso inverno, quando la corte costituzionale ha bocciato il trasferimento di 60 miliardi, risparmiati da un fondo fuori bilancio durante la pandemia, a una serie di pacchetti per il 2024. Quella decisione, tra le altre cose, ha annullato anche i bonus per l’acquisto di auto elettriche. Per mesi Scholz e Habeck hanno fatto pressione su Lindner affinché accettasse di superare il freno al debito. Per socialdemocratici e Verdi, lo Stato deve investire per stimolare la ripresa, anche a costo di aumentare il deficit. Il liberale, invece, preferiva un taglio netto della spesa, per liberare risorse da destinare agli investimenti. A complicare ulteriormente la situazione c’è la questione della difesa. La Germania ha puntato tutto sulla Pax Americana: sono gli Stati Uniti a garantire la stabilità dell’Europa e del mondo. Il primo mandato di Trump è stato uno shock. Il tycoon ha ridotto la presenza militare statunitense in Germania di 12mila soldati, poiché la Germania non contribuiva sufficientemente (meno del 2% del Pil) alla Nato. Allo scoppio della guerra in Ucraina, secondo il Kiel Institute, la Bundeswehr (l’esercito tedesco) sarebbe stata in grado di combattere per meno di dieci giorni prima di esaurire le munizioni. È in corso un rinnovamento delle forze armate e degli arsenali. Sempre secondo il Kiel Institute, saranno necessari quasi due decenni e una cifra vicina al trilione di euro, considerando lo sforzo da coordinare con Bruxelles per istituire una difesa comunitaria. Il contributo della Germania alle casse dell’Unione europea vale un quarto del bilancio comunitario. Berlino non ha né il tempo, né i soldi.


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Lo scontro politico tra Scholz e Lindner