Successo a valanga che travolge le speranze democratiche. Ai repubblicani anche il Senato e – probabilmente – la Camera. Il tycoon avrà mano libera
America, maschile singolare. Così è dal 4 febbraio 1789, giorno dell’elezione di George Washington, e così resta oggi, a dispetto dell’analisi grammaticale. Una donna alla Casa Bianca è stato un sogno democratico di mezzo autunno, un castello di carta tirato su da chi i sondaggi li fa – aggiungendo un po’ di proprie speranze alle risposte altrui – e da chi ai sondaggi partecipa, mentendo, magari vergognandosi della propria scelta (è accaduto con Bolsonaro in Brasile, accadeva di continuo con Berlusconi in Italia).
Quel castello è crollato quando nella capitale, Washington, non era nemmeno mezzanotte. Eravamo tutti convinti di svegliarci il mattino dopo ancora col dubbio; col passare dei minuti – mentre ogni Stato in bilico si tingeva inesorabilmente di rosso, il colore dei repubblicani – ci siamo invece addormentati con una certezza. Anche il 47esimo presidente degli Stati Uniti sarà un uomo.
Keystone
Trump sul palco con la moglie Melania
Sappiamo tutti chi è, cosa ha fatto, cosa promette di fare, quanto sbraita, come comunica e anche perché lo fa in quel modo: è già stato il 45esimo presidente. Dopo Grover Cleveland (eletto nel 1884, battuto nel 1888 e poi rieletto nel 1892), Donald Trump è il primo presidente americano a riconquistare la Casa Bianca dopo averla persa. Per la seconda volta ha sconfitto una donna. E sarà il più anziano di sempre a insediarsi, il prossimo gennaio. In mezzo ci sono stati i quattro anni di Joe Biden, che ha provato a districarsi dentro un periodo sciagurato, iniziato con la pandemia, continuato con il pasticcio del ritiro in Afghanistan e due guerre che – seppur lontane (Ucraina e Medio Oriente) – proprio non si potevano ignorare. In un momento di crisi economica e sociale, Biden ha badato al sodo, prendendosi cura dei numeri, risanandoli, ma si è dimenticato delle persone in carne e ossa. Quelle che a dispetto dei grafici e dei mercati non trovavano abbastanza dollari nel portafoglio per prepararsi una cena decente, o semplicemente una cena. Quando passi dalle costolette del ristorante a quelle del fast-food, poi da quelle del fast-food a quelle del supermercato, da quelle del supermercato a quelle del discount e infine a non mangiarle più, le costolette, ti affideresti anche al diavolo in persona. C’era Trump, hanno votato lui. Che poi col diavolo mostri anche dei tratti in comune, poco importa.
Resta il fatto, ormai inconfutabile, che l’America l’ha rivoluto a tutti i costi, come lui ha rivoluto a tutti i costi tornare alla Casa Bianca. Intanto perché tutti i suoi processi, in quanto presidente, ora verranno bloccati o quantomeno annacquati (in teoria, stando alle leggi, potrebbe perfino governare il Paese dal carcere, eventualità che il sistema farà di tutto per scongiurare, magari forzando le sue stesse regole).
Ma non è solo quello, è la smania dell’uomo di potere a cui il potere non basta mai. E di concedersi la possibilità, a 78 anni suonati, di finire davvero sui libri di storia, non solo per un assalto al Congresso (“Sistemerò ogni cosa come promesso, metterò fine a tutte le guerre”, ha detto a elezione ormai certa dal palco di Palm Beach, dove ha seguito lo spoglio con famiglia e fedelissimi). Sembra incredibile come l’istigatore di quell’embrione di guerra civile, possa tornare proprio lì a giurare una seconda volta come presidente. Lo farà grazie alla propria perseveranza, ai soldi di Elon Musk e al sostegno di due maggioranze, quella rumorosa che seguiva i suoi comizi in giro per il Paese come se fosse la tournée di una rockstar e quella silenziosa che covava la vendetta verso i democratici aspettando un’arma talvolta spietata quanto quelle che girano nelle fondine del Paese: il voto.
R. Scarcella
Il Trump alla Picasso di Roberto Marquez fuori dalla Casa Bianca
Lui, appena ha capito di avercela fatta, si è affrettato a mettere anche Dio tra i suoi sostenitori, che fa sempre comodo (e, fino a prova contraria, non verrà mai a smentirlo): “Il Signore mi ha risparmiato per un motivo. E quel motivo è salvare il Paese. Ora completeremo la nostra missione”. Trump si riferisce all’attentato di Butler, quando fu colpito a un orecchio dal proiettile di un matto che voleva punirlo e ha invece finito per avvantaggiarlo, regalandogli l’immagine simbolo della rivincita: lui, insanguinato e col pugno chiuso che urla “Fight, Fight, Fight!”. Su quell’episodio, l’ex e ora neopresidente ha costruito una campagna elettorale da miracolato in grado di fare miracoli a sua volta. Guerre, migranti, dazi: non c’è tema o problema per cui lui non abbia pronta una soluzione, anche drastica. Ha capito che la gente non vuole spiegazioni, ma reazioni. E ha un ulteriore vantaggio, tra quattro anni non potrà farsi rieleggere. Chi è al primo mandato, deve sempre governare col freno a mano tirato in vista di una possibile rielezione. Lui, che già se ne frega di suo, potrebbe essere ancora più diretto e dirompente. Non sembra gli siano mai interessate le conseguenze di quel che fa e ora ha anche il vantaggio di conoscere già la macchina burocratica di Washington. In più avrà in mano il Senato, che si è colorato di rosso anche lui, e – probabilmente – la Camera. Di fatto anche la Corte Suprema è sbilanciata dalla sua parte.
Resta da capire se davvero avverranno le purghe di stampo staliniano che aveva promesso (senza ovviamente chiamarle così). Nei mesi scorsi sono girati documenti, considerati originali, con vere e proprie liste di proscrizione e addirittura una sorta di vademecum trumpiano a cui bisogna aderire in toto se si vuole lavorare per lui, con il piccolo particolare (e l’aggravante) che gli Stati Uniti non sono una sua azienda.
Nel frattempo Washington si è risvegliata sotto un cielo azzurro e un clima quasi estivo (niente giacche, via le felpe): in giro non c’è nessuno e sembra una pigra domenica di inizio settembre. Fuori dalla Casa Bianca, in Lafayette Square, ci sono solo giornalisti, una presenza fissa (l’autoproclamato ‘Truth Conductor’ con il suo cartello: ’Smettetela di odiarvi l’un l’altro solo perché non andate d’accordo’), un artista di Guadalajara, Roberto Marquez, che sta terminando un murale portatile con un Trump in stile Picasso abbracciato da una donna e contornato da una bandiera americana e una messicana, un venditore di cappellini rossi ‘Make America Great Again’ (20 dollari) e crocifissi colorati di plastica (5 dollari) e un uomo con la maglia ‘Gays for Trump’.
R. Scarcella
James Basinger, dal South Carolina
Si chiama James Basinger, viene dalla Carolina del Sud, ed è un perfetto esempio di quel che Harris e i suoi hanno sottovalutato in campagna elettorale: “Io sono stato un democratico duro e puro fino al 2015. Poi l’arrivo di Trump ha cambiato le cose. Ho capito come i democratici non abbiano una vera agenda, ma cercano di compiacere anime troppo diverse loro, come noi gay e i musulmani. Dicono ‘sì’ a tutti, ma se dai ragione a tutti è come non darla a nessuno. E i risultati si vedono. Io mi sono sposato col mio compagno, che è russo, proprio sotto l’amministrazione Trump. Vado ai comizi e l’unica aggressione l’ho subita da un gruppo fascista spagnolo. I sostenitori di Trump mi hanno difeso, hanno anche fatto sventolare la mia bandiera arcobaleno”.
Basinger – che ha subito anche una perquisizione dell’Fbi dopo aver partecipato alla manifestazione che ha portato all’assalto al Congresso (“Ma io non ero tra i violenti”, ci tiene a spiegare) – ha anche una lettura molto semplice di come sono andate le cose. Tra gli operai e i lavoratori della Carolina del Sud, nel giro di pochi anni i trumpiani si sono moltiplicati. Molti tra coloro che guadagnano salari bassi hanno voltato le spalle ai democratici. Io infatti sono rimasto sorpreso solo della rapidità con cui si è capito che Trump ha vinto, non della sua vittoria”. Alla faccia dei sondaggisti.
Intanto, nel quartier generale dei democratici volano gli stracci. Buttare Harris nella mischia a pochi mesi dal voto è stato un errore. E lo staff della vicepresidente si è scagliato contro Biden, reo, a loro dire, di non essersi fatto da parte per tempo, in modo da poter preparare una campagna elettorale più ragionata ed efficace.
Forse si sarebbero potute fare delle vere primarie per capire la reale forza di Harris o per scovare un nuovo Obama. L’originale si è speso fino all’ultimo in quella che si è rivelata alla fine una missione impossibile. Anzi, ora c’è perfino chi accusa Obama di aver oscurato le generazioni successive. Siamo, insomma, al caos. Al tutti contro tutti. E al caos – a cose ormai fatte – hanno brindato, ironicamente, anche il gestore del Marshall’s Bar di Foggy Bottom, a due passi dalla Georgetown University, e alcuni avventori del suo locale: “A quattro anni di Trump e al mio voto buttato nel cesso”, dice mentre versa da bere un giro di shottini. Gli altri buttano giù l’intruglio in un sorso e una voce da dietro riassume presente e futuro in poche parole: “Let’s see this country burn, once and for all”. Vediamo questo Paese bruciare una volta per tutte.
Keystone
L’uscita di scena di Kamala Harris