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‘Harris batterà Trump, Biden sarà rivalutato col tempo’

Matteo Muzio, direttore di Jefferson, vede il tycoon in difficoltà e i democratici finalmente uniti. Gli Stati decisivi? Arizona, Nevada e Michigan

Kamala Harris durante il suo primo comizio
(Keystone)
24 luglio 2024
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“Trump ha sbagliato tutto dopo l’attentato, mentre i democratici stanno trovando nuove energie. E anche Harris è un’altra candidata rispetto a quella indecisa e ondivaga delle primarie del 2019”. Matteo Muzio, giornalista e storico esperto di Stati Uniti, direttore di Jefferson, newsletter su politica e attualità americana, vede un sorpasso che, con Biden candidato, non sarebbe stato possibile, nonostante abbia lavorato bene alla Casa Bianca.

Facciamo il punto, dopo tanti sconquassi. Cosa sta accadendo dopo l’addio di Biden?

C’era chi chiedeva una rapida investitura di Kamala Harris. E dall’altra chi, come Barack Obama e Nancy Pelosi, chiedeva una convention aperta. Il risultato mi pare accontenti tutti. A parte Harris non ci sono altri candidati di rilievo. E tutte le correnti dei democratici stanno appoggiando Harris: dalla Squad di Alexandra Ocasio-Cortez, e cioè la sinistra più radicale, ai New Democrats, che rappresentano i democratici più vicini al centro che magari provengono da distretti in bilico e quindi erano particolarmente interessati a un cambio al vertice per non essere trascinati giù da un cattivo risultato a livello presidenziale. Quindi un’unione abbastanza notevole che sta portando a una convention teoricamente aperta, senza un candidato prefissato, ma con la maggioranza dei delegati pronta a votare Harris.


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Harris e Biden alla Casa Bianca

Risolto il problema del candidato presidente, resta quello del vice...

La prima scelta è il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, molto popolare, che porterebbe in dote uno Stato che da un po’ di anni è diventato quel che una volta era l’Ohio, e cioè lo Stato che bisogna vincere se si vuol puntare alla presidenza, nonché il più grande della Rust Belt, quell’insieme di Stati che sono stati colpiti da una brusca deindustrializzazione negli ultimi vent’anni. Altri nomi potrebbero essere Tony Evers, governatore del Wisconsin, un ex preside; l’ex pilota e astronauta Mark Kelly, adesso senatore dell’Arizona, che come il vice di Trump, J. D. Vance, ha un passato da militare e potrebbe anche dire la sua sul tema dell’immigrazione visto che arriva da uno Stato confinante con il Messico. Un’altra ipotesi, per un ticket di sole donne, è la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, che però si è detta non interessata a lasciare la sua carica, anche se avrà un ruolo di rilievo nella campagna elettorale e poi forse anche in un’eventuale amministrazione Harris. Serve però un vice maschio, magari centrista, per bilanciare il ticket, per quanto Harris non sia affatto assimilabile a una candidata della sinistra radicale alla Ocasio-Cortez, basti pensare alle sue posizioni vicine a Israele o a quelle sulla lotta al crimine.

E come può Harris in campagna elettorale barcamenarsi tra le due anime del partito, quella radicale e quella più centrista legata a Israele?

Chi ha posizioni pro Palestina sulla guerra a Gaza ha capito che non sostenere prima Biden e ora Harris sarebbe un grave errore. Trump è molto vicino al governo Netanyahu e in caso di vittoria darebbe presumibilmente mano libera a Israele sull’occupazione di Gaza e probabilmente non solo. La questione palestinese potrebbe incidere molto in Michigan, lo Stato che ha la più alta percentuale di musulmani. Lì c’è anche la città dove ha sede la Ford, Dearborn, con una grossa comunità musulmana. La priorità a sinistra è battere Trump, perché nel caso Trump vinca, ci sarebbero problemi non solo per la tenuta democratica del Paese, ma anche per una soluzione alla questione palestinese. Biden dopo il 7 ottobre scorso diede credito a Netanyahu, che però si è speso totalmente. È evidente che per lui la guerra non ha più lo scopo di sradicare Hamas, ma di restare al potere. In tempo di pace Netanyahu era un leader screditato e sotto il tiro dell’opposizione per la controversa riforma del sistema giudiziario. Qualora la guerra finisca, questi problemi riesploderebbero tali e quali. Così usa la guerra come strumento per mantenersi al potere e attendere l’eventuale ritorno di Trump. Harris farà come l’ultimo Biden, sostegno a Israele sì, ma non assegni in bianco.


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Pullman pro-Trump

Non solo Israele, ma anche Cina e Russia…

Trump ha notoriamente una visione di Putin – come ha detto tempo fa – di un vincente, perché la sua visione di vincente è un leader che prende uno Stato non totalmente democratico, ma neanche autoritario com’era la Russia di Eltsin e lo rende, attraverso la manipolazione, uno Stato totalitario. Un’altra posizione che piace all’estrema destra trumpiana è la postura moralizzatrice assunta da Putin su minoranze Lgbtq+, migranti, aborto e diritti civili. Vedono Putin come un modello, non ne hanno mai nemmeno fatto mistero. Questa è una delle ragioni per cui l’Ucraina potrebbe venire abbandonata e le armi venire tagliate. Con la Cina Trump dice di essere sempre molto duro e intenzionato a introdurre dazi pesanti, ma poi nei fatti non si sono viste grosse differenze rispetto a Biden. Democratici e repubblicani hanno approcci simili con Pechino.

Di Harris si dice che ha poco carisma e qualche ombra di troppo nel suo passato. Saprà dimostrarsi all’altezza del compito?

Alle primarie del 2019 si dimostrò una candidata ancora immatura, con uno staff gestito in modo caotico e un’attenzione ossessiva ai trend topic di Twitter. Ne scaturirono prese di posizione casuali e non una chiara linea o moderata o progressista. Ora mi pare un’altra candidata, che può reggere l’impatto. Ha un background non immacolato, ma non facilmente attaccabile. Anche Trump in questo si è trovato impreparato, gli unici attacchi che sto sentendo sono sul fatto che lei ha avuto in mano il dossier sul confine con il Messico e non ha risolto nulla. Ma del resto è un compito titanico su cui proprio i repubblicani non hanno mai voluto trovare un accordo proprio per usarlo in campagna elettorale.


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Una fan di Donald Trump

Però Harris, nonostante il racconto mainstream che la vuole come vicepresidente soprammobile, ha inciso parecchio in questi 4 anni...

Certo. Sopratutto nel primo biennio con un Senato diviso a metà, 50 democratici e 50 repubblicani, Harris ha inciso molto. Da Costituzione il vicepresidente in caso di stallo interviene e vota a favore dell’amministrazione. C’è stato anche un caso di un vicepresidente in pessimi rapporti col presidente che gli votava apposta contro. Ma dobbiamo risalire agli anni Trenta dell’Ottocento, a John C. Calhoun, vice di Andrew Jackson, un rappresentante del Sud che non era d’accordo con le politiche accentratrici della presidenza. Il record di interventi diretti di un vicepresidente era il suo, ma Harris lo ha battuto votando ben 33 volte: è intervenuta per nomine di giudici, ma anche su provvedimenti come l’Inflation Reduction Act. Insomma, ha usato, dopo molto anni, quello che è il ruolo ufficiale che la Costituzione affida alla vicepresidente, e cioè presiedere il Senato. Nella prassi moderna, con altri numeri, non si presenta praticamente mai, solo per lo Stato dell’Unione o in altre occasioni celebrative. Anche in questo biennio durante il quale i democratici erano in vantaggio 51 a 49 qualche impasse l’ha dovuta spezzare.

Come cambia ora la campagna di Trump?

Ci sono Stati dove la discrepanza è molto alta. In Pennsylvania ad esempio il candidato democratico al Senato, Casey, viene dato con 10 punti di vantaggio e Trump avanti nelle presidenziali di 4 punti. Una discrepanza di 14 punti non è credibile. Una situazione simile è in Wisconsin. Quanta gente sotto presidenziali mette un voto democratico nell’urna per una cosa e poi una scheda bianca per un’altra? I numeri si amalgameranno e i democratici, nonostante un paio di elezioni difficili, in Ohio e in Montana, potrebbero mantenere una sostanziale parità di seggi al Senato. Poi c’è un altro fattore: i repubblicani avevano puntato sulla carta Biden ‘vecchio e rimbambito’, ripetendolo in modo ossessivo anche alla convention. Ora quella carta, che era pop e funzionava, non ce l’hanno più. Per attaccare Harris devono usare argomenti più di concetto e su quello, un uomo da slogan immediati come Trump fa più fatica. Attaccare sull’economia o la crisi degli oppioidi in modo articolato poteva farlo uno come Romney, non lui.

Trump ha tratto inizialmente un grande vantaggio dall’attentato. Ma un po’ per colpa dell’informazione ipervelocizzata, un po’ per colpa sua, sembra che sia successo un anno fa...

C’è stata una pessima gestione del post attentato da parte di Trump. Molti commentatori vicini al mondo conservatore dicevano “ora Trump è cambiato e assumerà un tono più unitario”. Lo stesso Reagan alle elezioni del 1980 era un candidato molto conservatore con posizioni molto di destra. Poi dopo l’attentato scelse toni più concilianti. Invece la convention di Trump è stata un continuo di deliri e insulti, ha scelto un vice ancora più estremista di lui. Nei comizi è tonato ai soliti argomenti. E l’attentato è stato come cancellato dai toni che sono tornati quelli aggressivi di prima. Come se nulla fosse accaduto. Poteva usare l’attentato per resettare la campagna, e invece ha fatto solo capire che sentiva la vittoria in tasca e ora non più.


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Il celebre scatto di Trump dopo l’attentato

A questo punto ci sarà un dibattito Harris-Trump?

Lui finora aveva detto che non voleva dibattere con Harris perché è una candidata illegittima. Al contrario spinse molto per il dibattito con Biden perché sapeva di avere un vantaggio su un avversario che aveva dato segni di decadimento. Ma lui non ha voluto dibattiti nemmeno con i candidati repubblicani alle primarie e ora non lo vorrebbe con Harris. Sa che chi è in vantaggio nei sondaggi in teoria deve evitarli. E sa, come dice Ron DeSantis, che non è più bravo come un tempo a battagliare. Poi bisogna aggiungere che i dibattiti una volta venivano organizzati da una commissione bipartisan, mentre l’ultimo di fine giugno era concordato alle due campagne con regole nuove che hanno finito per avvantaggiare Trump. Non c’era ad esempio il fact checking. Prima se un candidato diceva castronerie veniva fermato dal conduttore. Contro Biden, Trump ha potuto inventarsi qualsiasi cosa.

E quindi, chi vince?

Condivido il parere del popolare Larry Sabato, il sondaggista dell’Università della Virginia, per cui vincono i democratici. Nelle ultime elezioni, anche quelle di midterm, al di là della popolarità dei candidati, gli americani hanno dimostrato di preferire le loro politiche. L’immagine infiacchita di Biden poteva offuscare questa cosa, ma con Harris il discorso cambia. Vedo una vittoria, sicuramente non con numeri schiaccianti. E questo apre un altro fronte che dobbiamo attenderci, nel caso, e cioè accuse di brogli, violenze e quant’altro.

Potrebbe esserci un bis di quello che abbiamo visto nel 2021?

No, perché è cambiato un dettaglio non da poco. All’epoca Trump era il presidente in carica. E da presidente ha potuto bloccare per ore l’arrivo della Guardia nazionale al Campidoglio. Ora potrebbe fare solo il capopopolo violento. Ma il presidente è Biden, e la Guardia nazionale arriverebbe in pochi minuti.

Quali sono gli Stati in bilico?

Sicuramente l’Arizona, ultimamente riconquistato dai democratici, terra di John McCain e bastione del repubblicanesimo moderno prima dell’arrivo di Trump. C’è da guardare poi al Nevada, dove il senatore democratico Harry Reid aveva creato una macchina perfetta, in stile Democrazia cristiana, per portare la gente a votare. Un modello che sta scricchiolando. E poi il Michigan.


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‘Grazie Joe’

E Biden cosa lascia? Cosa può fare ancora in questi mesi?

Potrebbe fare molte policy tramite ordini esecutivi, come la cancellazione dei debiti studenteschi. Tutte cose che possono aiutare Harris. Lui comunque sarà molto rivalutato col tempo. Ha attuato politiche trasformative ad ampio raggio in ambito economico, molte con un serio tentativo di superare il neoliberismo di matrice reaganiana. È stato un presidente molto ambizioso che nel primo biennio ha avuto risultati dal punto di vista economico degni di Roosevelt. E anche in politica estera ha tenuto unito il fronte euroatlantico come Obama con la crisi in Crimea non aveva fatto. Resta la macchia dell’Afghanistan, ma è un concorso di colpa. Una scelta alla Nixon col Vietnam, ‘ci ritiriamo alla chetichella, tanto poi l’elettorato se ne dimenticherà’ e in parte ha avuto ragione. E poi l’accordo di uscita dall’Afghanistan lo firmò Trump, quindi ha seguito la traccia del predecessore non cambiando quel che andava cambiato. Trump, però non può certo chiamarsi fuori.