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Harris, da vicepresidente imbranata a ultima speranza dem

Nata in una famiglia che aspirava alla scalata sociale è diventata pubblica accusa e poi senatrice. Ma da predestinata fallì alle primarie del 2019

Kamala Harris alla Casa Bianca
(Keystone)
22 luglio 2024
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La protagonista di Veep, premiatissima serie comedy andata in onda su Hbo dal 2012 al 2019, è una vicepresidente americana tanto fragile e vanesia quanto ambiziosa, che nonostante la propria incompetenza riesce a navigare le acque tempestose della politica di Washington fino a diventare la prima presidente donna della storia degli Stati Uniti.

Come in Veep

Negli ultimi quattro anni i social si sono divertiti moltissimo ad accostare il personaggio immaginario di Selina Meyer, in Veep mirabilmente interpretata da Julia Louis-Dreyfus, alla performance in carne e ossa di Kamala Harris. Come Meyer, Harris è diventata la vice di un uomo contro cui aveva perso le primarie, e che soprattutto all’inizio del mandato non si peritava di dissimulare la scarsa considerazione che aveva di lei. Come Meyer, Harris sembra avere un’inspiegabile attrazione per le situazioni grottesche e involontariamente comiche, specie a favore di telecamera, e una tendenza ad avvitarsi in discorsi così astratti e contorti da perdere qualsiasi rapporto con la comunicazione politica e divenire momenti di pura antilingua surrealista, con una strana inclinazione metafisica.


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Alle primarie del 2019

È di pochi giorni fa l’ultimo esempio, che i giornali hanno perfidamente soprannominato “operazione coconut”: un video del 2023, divenuto virale a inizio luglio, nel quale Harris durante un discorso alla Casa Bianca presenta il seguente argomento, con una seriosità e un’enfasi che accentuano l’assurdità del momento: “Pensate di essere caduti da un albero di cocco?” (risata maniacale) “voi esistete nel contesto di tutto ciò in cui vivete, e che è esistito prima di voi!”. La clip, che non ha nulla da invidiare ai migliori momenti di Steve Carell in The Office, ha consacrato una volta di più Harris come uno dei politici più cari ai social, e non certo per le ragioni che si augurerebbe. Come ha osservato Scaachi Koul su Slate, è il colmo dell’ironia, una trovata che forse non sarebbe venuta in mente nemmeno agli sceneggiatori di Veep, che dopo il ritiro di Biden questa vicepresidente-meme sia probabilmente l’ultimo argine tra gli Stati Uniti e la deriva autoritaria di un ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Non a caso 24 ore dopo l’endorsement di Biden, pur in assenza di alternative plausibili, Harris non era ancora certa della nomination. I media le attribuivano “10 ore” al telefono con “oltre 100 leader democratici” per limare le obiezioni e definire la candidatura. Misure numeriche che tentano di tradurre in byte e ore di sonno il costo della fatica per una scelta che condividono tutti, ma non entusiasma nessuno.

Il loto e la dea

Eppure fino al 2019, cioè al momento della candidatura per le primarie presidenziali, Harris sembrava una delle più luminose speranze dei democratici, se non addirittura una predestinata. Nata a Oakland (California) nel 1964, Harris è figlia di una ricercatrice indiana e di un economista giamaicano che si erano conosciuti a Berkeley nel movimento per i diritti civili, e che scelsero per lei un nome che rappresentasse tanto le sue radici quanto l’impegno della famiglia per l’emancipazione femminile: “Kamala” è una parola indiana che significa “loto”, oltre che un altro nome per la dea Lakshmi. “Una cultura che venera divinità femminili genera donne forti”, ha spiegato in seguito sua madre, Shyamala Gopalan, scomparsa nel 2019.


Famiglia Harris
Da bambina, a destra, con la sorellina Maya

L’infanzia di Harris rappresenta al meglio non solo i valori, ma anche le aspirazioni affluenti di una piccola borghesia immigrata che negli anni ‘70 si vede già americana, e si immagina classe dirigente. Fin da piccola Kamala affronta quotidianamente un lungo viaggio in autobus dal suo quartiere a prevalenza afroamericana fino alla Thousand Oaks Elementary School, situata in un ricco quartiere bianco. I genitori divorziano quando ha 7 anni, e lei continua a frequentare sia un tempio indù che una chiesa di afroamericani battisti. Fa le medie e il liceo in Canada, a Montreal, dove lei e la sorella seguono la madre che ha trovato un posto fisso da ricercatrice, e poi si trasferisce a Washington per studiare alla Howard University, antico portale afroamericano per l’eccellenza che conta tra i suoi alumni due premi Nobel: la scrittrice Toni Morrison e il diplomatico Ralph Bunche.

Gli studi in legge

In seguito studia legge a San Francisco, aiutando la sorella minore Maya – oggi a sua volta un influente personaggio politico, tra le più importanti consigliere di Hillary Clinton nel 2016 e poi capo della campagna di Kamala nel 2020 – che aveva avuto una figlia a 17 anni. “All’università c’era questo clima brutale da tutti contro tutti, poi tornavo a casa a fare ‘ciao ciao’ con la bambina a un pezzo di merda nello sciacquone. Aiutava a mettere tutto in prospettiva”, ricorderà nel 2018 (Harris non ha figli biologici propri, un’ulteriore caratteristica da outsider: se in America non fosse già abbastanza complicato essere una politica donna e nera, lei non può nemmeno ricorrere alla narrativa trasversale della maternità).


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Nel 2004, nel suo studio negli anni da ‘prosecutor’ in California

Fin qui la trama è quella di un romanzo di formazione senza scossoni, in cui la protagonista supera pregiudizi e ostacoli grazie a talento e dedizione, ottenendo la vita che desidera per sé e per la sua famiglia. Ma è a questo punto che la sua biografia inizia a presentare tratti sorprendenti, o per qualcuno sconcertanti. Dopo la laurea Harris sceglie la carriera di prosecutor a San Francisco, cioè della pubblica accusa in un sistema giudiziario bacato, nell’analisi dell’ambiente dei diritti civili da cui Harris proviene, dal germe del razzismo sistemico. La sua scelta non viene compresa in primo luogo da una parte della sua famiglia e della sua comunità, e sebbene Harris abbia sempre rivendicato di aver scelto quella strada proprio per “fare le cose in modo diverso” negli ultimi anni diverse inchieste hanno spulciato i suoi anni di lavoro nella giustizia californiana, concludendo nel migliore dei casi che si è sempre tenuta ben lontana da casi controversi o politicamente sensibili, nel peggiore che non è stata un pubblico ministero particolarmente progressista.

Relazioni, ombre, amicizie

A questo periodo risale anche la pagina più oscura della sua biografia, i versi satanici di una mitografia politica e personale che vorrebbe trovare il suo lieto fine alla Casa Bianca. Nel 1994 Kamala Harris inizia una relazione con Willie Brown, potentissimo politico democratico di trent’anni più anziano di lei. Speaker della Camera dei rappresentanti della California, durante la loro relazione Brown la nomina membro di due diverse commissioni pubbliche, con un compenso totale di 80mila dollari l’anno in aggiunta allo stipendio da pubblico ministero. La relazione si conclude un anno dopo, subito dopo che Brown è diventato sindaco di San Francisco. La vicenda è a tutt’oggi spunto per polemiche velenosissime, quando non di vere e proprie campagne di insulto sessista.


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Con il marito Douglas Emhoff

Nel 2003 Harris si candida procuratrice distrettuale a San Francisco sfidando l’uscente Terence Hallinan, un altro democratico che era stato il suo capo fino a poco tempo prima. Lo batte largamente e diventa la prima procuratrice distrettuale nera in California. Nei primi tre anni del suo mandato il tasso di condanne a San Francisco schizza dal 52 al 67%, e per ben due volte rifiuta di firmare proposte di legge contro la pena di morte, pur dichiarandosi personalmente contraria. Questo e altre posture gesuitiche (per esempio sulla depenalizzazione del possesso di droga, o sull’abrogazione di leggi penali particolarmente retrograde), che pur manifestano un’intelligenza strategica sottile, contribuiscono a far apparire Kamala Harris come una politica fredda, calcolatrice e opportunista, una nomea deleteria che per giunta viene perdonata ancor più difficilmente a una donna.

L’attenzione mediatica

Il suo primo profilo giornalistico esce nel 2007 sul San Francisco Chronicle, e la definisce tra l’altro “elusiva in modo esasperante”. Diventa uno dei personaggi più in vista della Bay Area in anni di grande fermento per la Silicon Valley, stringendo amicizie con brillanti giovanotti in dolcevita che oggi sono diventati i padroni del mondo, e potenziali angel investors dalle ali smisurate per la sua campagna, Nel 2013 il presidente Obama viene registrato mentre la definisce “la più bella procuratrice distrettuale del paese”, e poi si scusa per l’uscita sessista. Nel 2014 in una piccola cerimonia privata officiata dalla sorella Maya, Kamala Harris sposa l’avvocato ebreo Doug Emhoff, che nel 2020 diventerà il primo “second gentleman” della storia americana.

Il passo da overachiever di Harris infatti se possibile cresce ulteriormente di frequenza nel salto dalla giustizia alla politica: nel 2016 diventa la seconda donna nera in assoluto a ottenere un seggio in Senato, sconfiggendo anche in questo caso un’altra democratica (una costante che non fa esattamente miracoli per la sua popolarità nel partito).


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Gli artisti di strada la vedono già sfidare Trump

Durante la presidenza di Trump si rivela una spina nel fianco tale da meritarsi attenzioni personalizzate del presidente, che la definisce sprezzantemente “il membro più liberal (cioè nel linguaggio politico americano più a sinistra, nda) del Senato”. Il background nella pubblica accusa sembra farne un’avversaria formidabile per Trump, che in quel periodo (altri tempi, altre accuse), è sotto indagine del procuratore Mueller per il cosiddetto Russiagate, e sul punto di subire il suo primo impeachment per aver tentato di convincere il presidente ucraino Zelenski a lanciare un’indagine contro Joe Biden.

Candidata alle primarie

Alle primarie del 2019, quindi, Harris sembra una delle alternative più credibili a Biden, e inizialmente tanto i sondaggi quanto la raccolta fondi lusingano le sue ambizioni. Poi le cose cambiano, e in fretta. La cautela e i bizantinismi che avevano fatto di Harris un pubblico ministero così efficace la rendono una candidata ambigua e indecifrabile. Inizialmente si posiziona a sinistra, dalle parti di Bernie Sanders e Elizabeth Warren, poi con una sterzata che si rivela quasi subito un testacoda prova a tagliare la strada a Biden al centro. Infine tenta di presentarsi come una candidata “pragmatica”, insofferente alle dispute teoriche, in una fase in cui invece il Partito Democratico è impegnato a fare il tagliando periodico alla propria ideologia, e il successo arride proprio a quelle nuove leve, da Alexandria Ocasio-Cortez a sinistra a Pete Buttigieg al centro, che non si vergognano dei poster appesi in cameretta.

Dopo oltre 300 giorni, a dicembre 2019, Kamala Harris ritira pietosamente le vestigia di una campagna dilaniata tra l’altro dai contrasti tra i suoi principali consiglieri, e punita da sondaggi che la vedono ormai al 4%. Non sostiene immediatamente Biden, impiega anzi più di tre mesi a decidersi, e quando lui la sceglie come candidata vice si alza un’onda di stupore, seguito da una contronda di malignità. Harris viene definita una “token woman”: nel linguaggio dell’affirmative action, “token” è l’appartenente a una minoranza che viene cooptato per mostrare l’apertura e l’inclusività di un insieme che in realtà tanto inclusivo e aperto non è.

Un sospetto che, a dire il vero, non è stato dissipato da questi ultimi mesi di campagna elettorale per Biden, nei quali Kamala Harris con disciplina robotica, o ammirevole patriottismo, ha in sostanza operato a gettone facendo la donna quando c’era da parlare di aborto, l’afroamericana per celebrare Juneteenth, l’indiana per corteggiare quella minoranza, ed è in sostanza scomparsa dal dibattito sull’economia, la crescita e la politica estera, cioè i temi che giocoforza dovranno essere la colonna vertebrale della sua campagna presidenziale. Che possa rivelarsi proprio questa opportunità di entrare in corsa senza posizioni consolidate, con la possibilità quindi di sorprendere i suoi e spiazzare gli avversari, la sua forza?


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Con Joe Biden