laR+ Stati Uniti

L’elefante Biden nella stanza Dem

Lo staff del presidente cerca di trasformare la débâcle in opportunità. Anche perché il partito è stato incapace di produrre un leader dopo Obama

Joe e Jill
(Keystone)
13 luglio 2024
|

Padrone di casa al vertice Nato di Washington, asserragliato quasi come se gli altri leader di quello che ama definirsi mondo libero gli facessero da picchetto, Joe Biden non molla. Fino a due settimane fa la sua sostituzione in corsa era materia per retroscenisti a corto di idee o blogger in astinenza da House of Cards. Biden sembrava addirittura in forma, gli avversari scherzavano (ma nemmeno troppo) amaramente sul fatto che fosse in qualche modo “dopato”, la sua campagna aveva colto la palla al balzo pubblicando su X la foto del suo immaginario energy drink. Ma dopo il disastroso dibattito del 27 giugno un brivido di Fremdschämen ha scosso le coscienze progressiste di mezzo Occidente, e sono stati eminenti esponenti democratici, tra cui alcuni influenti parlamentari, ad additare l’elefante – animale notoriamente longevo – nella stanza.

Biden però, sebbene il New York Times abbia raccolto gli spifferi di alcuni cedimenti in privato, in pubblico non ha mai vacillato, e anzi il suo staff ha cercato di trasformare la débâcle in opportunità. Il comizio immediatamente successivo al dibattito, in North Carolina, in cui Biden quasi rivendica di non saper più dibattere con la destrezza di un tempo, né parlare in modo fluente, ma di saper ancora riconoscere il giusto dallo sbagliato e portare a termine un lavoro, è diventato uno spot elettorale trasmesso su scala nazionale. Il tentativo è forse quello di accostare in qualche modo Biden alla figura di Roosevelt, che in sedia a rotelle e prostrato dalla sindrome di Guillain-Barré fece in tempo a sconfiggere Hitler e salvare la democrazia. Biden ha quindi dichiarato in tv che potrebbe ritirarsi solo se a chiederglielo fosse un’apparizione del “Signore Onnipotente”, scegliendo un’immagine incisiva sebbene un po’ rischiosa sul terreno della lucidità. Subito dopo è stata svelata la cover di Vogue di agosto con sua moglie Jill, in verità programmata da molto tempo, che però a molti è parsa il sigillo finale sulla nomination del marito (l’idea della first lady burattinaia fa sempre grande presa sui commentatori, europei in particolare, a testimonianza forse di una visione non proprio all’avanguardia del rapporto tra le donne e il potere).

La mancanza di un’alternativa

Il fatto è che, piaccia o meno, a favore della conferma di Biden ci sono ancora ottimi argomenti, a cominciare dalla mancanza di un’alternativa convincente. Kamala Harris è un politico straordinariamente impopolare, perfino in un ruolo tradizionalmente coccolato dai sondaggi come quello di vicepresidente, Michelle Obama una fantasia da rotocalco, le altre ipotesi sono tutte figure di retropalco o di secondo piano. Considerando anche Biden un cascame di quell’esperienza, il partito democratico non produce un leader di chiara statura presidenziale da Obama: dal 2008 al 2024 fanno 16 anni, troppi (si potrebbe dire lo stesso di quel che resta del partito repubblicano, ma a Trump non dispiace apparire come un Saturno che divora i suoi figli, e in questo senso l’assenza di competizione lo rafforza). Inoltre, i ticket della politica americana sono piattaforme di interessi molto più definite che nella tradizione europea della rappresentanza, dal punto di vista politico ma anche e soprattutto economico. Il cartello Biden-Harris ha una base che può essere paragonata a un portafoglio molto complesso di investitori, e sarebbe rischiosissimo cambiare la formula così a ridosso dei dividendi. Sebbene abbia fatto notizia la scelta di Abigail Disney, discendente di Walt, di sospendere i contributi al partito finché Biden non cederà il passo, sono per ora molti di più i donatori che vedono ancora nel presidente uscente la propria garanzia.

In posizione di forza, ma spacciato

Biden insomma è ancora in posizione di forza, e ha un solo grosso problema: è spacciato. Non si tratta solo dell’indice di popolarità in generale, che vede Trump a un vantaggio record di 49% a 43%, ma che tutto sommato in un sistema elettorale come quello americano conta poco. Molti sondaggisti non certo sospetti di simpatie repubblicane in questi giorni hanno aperto coi loro bisturi la pancia del Paese, per richiuderla subito scuotendo la testa. Biden appare in svantaggio in tutti i segmenti demografici e in tutti gli Stati che verosimilmente decideranno le elezioni, e se è vero che la scienza delle previsioni è sempre inesatta resta molto improbabile che, se è prevista pioggia ovunque, il sole splenda da Seattle a Orlando.

Qui però incontriamo un ulteriore livello di complessità, che farà la gioia dei sopracitati fan di House of Cards. Molti osservatori iniziano a sospettare che, come attori consumati, dietro la maschera piangente di Cassandra i Dem si facciano l’occhiolino. La scorsa settimana il partito ha fatto una scelta interessante, pubblicando sondaggi propri non per negare di trovarsi in svantaggio, ma per sostenere che lo svantaggio preesisteva al dibattito, e da esso è stato ben poco influenzato. Probabilmente i democratici pensano che far arrivare Trump alle elezioni da strafavorito sia l’unica carta rimasta per indebolirlo, a due livelli: ingessandolo in una postura istituzionale che gli prude da tutte le parti, e mobilitando quei democratici e indipendenti che sono freddini o addirittura scettici nei confronti del quadriennio di Biden, ma di fronte all’imminenza di un ritorno del tycoon alla Casa Bianca potrebbero mettersi una mano sul cuore.


Keystone
I protagonisti della stagione gerontocratica

Chicago, suggestiva coincidenza

Il tempo intanto stringe. I delegati Dem si riuniranno il 19 agosto a Chicago per scegliere ufficialmente il candidato presidente, per quella che è una coincidenza suggestiva ma non proprio benaugurante: fu proprio lì che si tenne la convention del 1968, celebre per i disordini, per l’assassinio di Bob Kennedy e perché a oggi l’ultima in cui i delegati scelsero un loro candidato, il vicepresidente Humphrey, invece di ratificare una nomination stabilita con le primarie. Finì malissimo, con il trionfo di Nixon. L’ipotesi di una brokered convention nel 2024, nella quale cioè un grande numero di delegati eletti alle primarie di Stato con Biden decide di non votare per lui, esiste in teoria ma è molto improbabile. Se questa stagione gerontocratica restituisce centralità al tema del corpo del sovrano e della sua salute, infatti, è bene ricordare che le guerre di successione improvvise sono sempre state le più cruente. Il partito precipiterebbe nel caos e arriverebbe alle elezioni di novembre a pezzi.

Il vero Comma 22 in questo momento, insomma, è che è solo Joe Biden, cioè colui la cui lucidità è messa in dubbio, a poter prendere la decisione da cui dipende il destino della più potente democrazia al mondo.


Keystone
Il ‘pericoloso’ precedente di 1968

L’elemento psicologico

Non va sottovalutato un elemento psicologico che nulla ha a che vedere col presunto deterioramento. Biden è un politico ordinario ma un personaggio tragico, con una vita privata segnata da una serie di disgrazie ai limiti dell’indicibile. È un uomo con la conclamata capacità, ammirevole o se volete anche sinistra, di restare perfettamente funzionale in circostanze che piegherebbero le ginocchia a chiunque. È un uomo che non ha paura del dolore, né della sconfitta. Non sorprende, in questo senso, che una manciata di lapsus e dimenticanze non abbiano intaccato la sua determinazione. Un altro motivo per cui Biden potrebbe tenere duro fino in fondo è proprio la sua sostituta in pectore, che a conti fatti sarebbe quasi certamente Kamala Harris. Tra i due scorre un’antipatia vistosa, quasi da fumetto, che solo in parte sono riusciti a stemperare durante il mandato. Ma i vertici democratici hanno in mente anche un numero: 24%. È il distacco di popolarità tra Trump e Biden nell’elettorato maschile, raddoppiato all’indomani del dibattito. L’idea di forza virile, contrapposta alla debolezza femminea dell’incanutito avversario, è il pick-up truck con cui Trump conta di sfondare tra i maschi bianchi destituiti di tutto il Paese. L’imbarazzante verità è che i democratici vedono in Harris un candidato che ha ancora meno speranze di Biden di recuperare qualcosa su questo terreno. Ma d’altra parte, sarebbe davvero pensabile per un partito progressista sbarrare la strada alla prima candidata donna non bianca, innegabilmente in testa alla linea di successione, per preferirle un maschio bianco come i chiacchierati Pete Buttigieg e Gavin Newsom?

Forse paradossalmente il primo ad aver capito come andrà a finire è Donald Trump, che non ha mai creduto all’ipotesi di un ritiro di Biden e continua a sfidarlo a giorni alterni a qualunque cosa, da un altro dibattito al golf, come se fosse una vecchia volpe da stanare. “Questione di ego” dice lui, che se ne intende.