Estero

Per il Labour valanga di seggi, ma non di voti

Alla vittoria in termini di deputati conquistati non corrisponde, complice il sistema elettorale uninominale maggioritario inglese, un boom di preferenze

I risultati del voto proiettati sulla facciata dell’edificio della BBC
(Keystone)
5 luglio 2024
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Una valanga di seggi, non di voti. C‘è anche questo elemento dietro il trionfo elettorale britannico di ieri del Labour in salsa moderata di Keir Starmer. A sottolinearlo fin dalla notte ("è stata una sconfitta Tory, ancor più che una vittoria laburista", le sue parole), è stato il professor John Curtice, guru dei sondaggi e dell'analisi dei flussi per conto della Bbc.

Ma ci sono soprattutto i numeri definitivi. Numeri che confermano il partito di Starmer a un soffio dal suo record storico, quello dei 418 seggi della super maggioranza conquistata da Tony Blair nel 1997; ma in termini di suffragi si è fermato poco oltre il 33%, non molto meglio del 32 raccolto nel 2019 nell'ambito della disfatta subita sotto la leadership di sinistra radicale di Jeremy Corbyn.

E addirittura con una perdita di oltre mezzo milione di voti in cifra assoluta da allora (9,6 milioni contro 10,2), complice l'affluenza precipitata ai minimi dal 2005 attorno ad appena il 60% degli aventi diritto. A distanza persino siderale dal 40% e quasi 12,9 milioni di voti che nel 2017 erano valsi allo stesso Labour di Corbyn soltanto un ‘hung Parliament’, con meno di 300 seggi.

Il tutto è frutto del tradizionale sistema maggioritario uninominale britannico del ‘first past the post’, in base al quale conta solo arrivare primi collegio per collegio; sistema secolare che, a determinate condizioni, come è successo ieri, può garantire il controllo di due terzi della Camera dei Comuni con un terzo dei suffragi dei votanti e un quarto del corpo elettorale. Condizioni favorite in questo caso dal tracollo di 20 punti dei conservatori di Rishi Sunak, fermatisi attorno al 23% (peraltro un po’ meno peggio dei sondaggi della vigilia), e soprattutto ad appena 120 seggi o poco più.

Un disastro segnato dalla perdita a favore del Labour, ma anche dei centristi Liberaldemocratici, di decine di collegi. Ma dietro il quale pesa soprattutto la concorrenza a destra dei populisti di Reform UK di Nigel Farage, terza forza nazionale in termini di voti (seppure ferma a 4 seggi, peraltro suo record storico, cui si somma una sfilza impressionate di secondi posti ai danni dei Tories in vari territori chiave).

A sinistra, viceversa, il Labour può dire di aver guadagnato davvero tanti consensi rispetto al 2019 solo in Scozia, grazie alla débâcle degli indipendentisti dell'Snp figlia dei loro scandali locali. Mentre arretra decisamente in tutte le aree a forte presenza di britannici di radici musulmane, molti dei quali sdegnati per la mancata condanna netta di Starmer dei raid israeliani sulla Striscia di Gaza.

E sullo sfondo dalla concorrenza di candidati più radicali o progressisti: a beneficio dei Verdi (che salgono ai loro massimi con oltre il 6% e 4 deputati eletti), nonché di sei indipendenti fra cui vari filo-palestinesi dichiarati o lo stesso Corbyn, rieletto nella sua roccaforte quarantennale di Islington North con largo margine sul candidato starmeriano a dispetto dell'espulsione subita dal suo successore.

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