sudamerica

Perù in fiamme per le proteste, decine di morti

Da un mese si manifesta contro il governo e per il voto anticipato

I funerali a Juliaca (Keystone)
12 gennaio 2023
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Il Perù non trova pace. Da settimane una decina di regioni nel sud del Paese - e città storiche come Arequipa, Cusco e Puno - sono in fiamme per le proteste popolari antigovernative. La mobilitazione, indetta da movimenti indigeni e molto partecipata, ha provocato cortei, blocchi stradali, scontri fra manifestanti e polizia, e un bilancio di ben 48 morti e molte decine di feriti.

La tensione, che dall’insediamento del presidente progressista Pedro Castillo il 28 luglio 2021 si era manifestata in termini politici nelle sedi istituzionali e nelle Procure, si è trasformata apertamente in un mobilitazione sociale dal 7 dicembre. Quel giorno il Parlamento controllato dal centro-destra, è riuscito a destituire Castillo "per incapacità morale", complice anche una decisione improvvisa, e mai realmente chiarita, del capo dello Stato di tentare di sciogliere l’Assemblea legislativa. In più, una rapida azione della magistratura che ha disposto una carcerazione preventiva per 18 mesi di Castillo per l’accusa di tentato colpo di stato, non è servita ad attenuare lo stato di tensione, ed ha innescato la rivolta popolare.

Blocchi e cortei

Per oltre due settimane si sono moltiplicati i blocchi stradali e i cortei, con grave disagio per i molti turisti, anche svizzeri, che sono rimasti bloccati nelle zone turistiche, e vicino alla cittadella incaica di Machu Picchu. Prima della tregua natalizia, gli incidenti avevano causato 28 morti e decine di feriti in sei regioni del centro-sud peruviano ((Lima, Apurimac, La Libertad, Junin, Arequipa e Ayacucho).


Scontri a Tacna (Keystone)

A riscaldare gli animi dei manifestanti c’è stato anche il comportamento della presidente Dina Boluarte, che era stata la vice di Castillo, ma che una volta subentrata al potere ha costituito un governo di centro-destra, alleandosi con la maggioranza parlamentare conservatrice. E anche il Parlamento ha fatto la sua parte per contribuire ad accrescere le rivendicazioni sociali, respingendo la richiesta di elezioni immediate, e limitandosi ad approvare un generico anticipo alla fine del 2024. Con questi presupposti, i movimenti che avevano contribuito alla vittoria presidenziale di Castillo sono tornati in piazza, insieme a gruppi di ‘ronderos’ (guardie contadine) e a membri delle tribù aymara e quechua.

Le richieste

Dal 4 gennaio i manifestanti hanno ripreso la protesta, esigendo lo scioglimento del Parlamento, le dimissioni di Dina Boluarte, immediate elezioni e la scarcerazione dell’ex presidente. Il governo del premier Alberto Otárola ha scelto la linea del confronto duro con i manifestanti e questo ha portato lunedì scorso a una battaglia campale a Juliaca, nella regione di Puno, in cui sono morti 18 manifestanti e un agente di polizia, arso vivo nell’auto cui la folla aveva dato fuoco. La Procura ha confermato che tutti i civili sono stati uccisi da colpi d’arma da fuoco, ed ha aperto una procedura preliminare contro Boluarte, Otárola e ministri di Difesa e Interno, per genocidio e omicidio colposo. Con questi presupposti, un eventuale trasferimento della protesta di massa nei prossimi giorni a Lima, come annunciato anche dalla Federazione dei minatori, potrebbe avere imprevedibili conseguenze.

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