Solo tre Stati riconoscono a oggi le repubbliche separatiste ucraine. Cosa vuol dire? Ne parliamo con l’esperto di diritto internazionale
Nei giorni scorsi, dopo Russia e Siria, la Corea del Nord ha riconosciuto l’indipendenza dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk. Quali sono le modalità e le conseguenze di questo tipo di atti? Ne parliamo con Michele Chiaruzzi, professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna.
Professor Chiaruzzi, quali sono le modalità di riconoscimento di un territorio come Stato sovrano?
«In primis il riconoscimento di uno Stato è un atto politico, frutto di una decisione politica del governo che lo mette in atto. Non ci sono modalità universali, ma eventuali passi legali legati all’architettura istituzionale dei singoli Stati. È chiaro che dal punto di vista interno le procedure adottate da una democrazia, ad esempio la Svizzera, non hanno nulla a che vedere con quelle di un regime autocratico come la Corea del Nord. Per il diritto internazionale valgono invece soprattutto prassi abbastanza omogenee: inviti reciproci, visite ufficiali, dichiarazioni formali, fino al riconoscimento istituzionale con scambio di ambasciatori, consoli o altre figure che incarnerebbero la sovranità di quei territori.»
E nel caso delle repubbliche del Donbass?
«È da sottolineare che è un caso di riconoscimento in via bilaterale, dato che quei territori dal punto di vista legale internazionale sono parte integrante dell’Ucraina. Essendo la comunità internazionale composta da soggetti politici che riconoscono consensualmente a maggioranza la sovranità di altri territori, di certo il riconoscimento da parte della Corea del Nord o di un singolo Stato non permette di considerarli come sovrani.»
C’è una "soglia" raggiunta la quale si può definire uno Stato ufficialmente riconosciuto? E come si agisce nel caso di riconoscimento non unanime?
«Non c’è una soglia oggettiva. A contare è il fatto che il riconoscimento sia bilaterale o multilaterale. È chiaro che uno Stato riconosciuto, ad esempio, da 120 Stati su 193 ha una capacità di azione molto più ampia. Vuol dire poter aprire, per esempio, ambasciate in 120 Paesi; c’è anche un peso economico importante rispetto a un territorio riconosciuto da due o tre Stati, ciò che non ha nessuna portata dal punto di vista legale internazionale. Può averlo, invece, da quello politico: pensiamo al caso emblematico di Taiwan, che, pur avendo un riconoscimento molto limitato, mette in atto una capacità d’azione quasi analoga a quella di uno Stato riconosciuto»
Anche una potenza come la Russia ha riconosciuto le repubbliche separatiste del Donbass: quali sono le conseguenze?
«Con una guerra in corso, al di là degli aspetti legali, il problema è l’effettivo controllo di un governo di quel territorio sulla popolazione e la sua capacità di esprimere una sovranità effettiva, anzitutto con confini stabilizzati e soprattutto una condizione di pace. Non esiste la possibilità di costituire uno Stato in guerra. E ciò svela la natura prettamente politica di questi riconoscimenti attuati proprio da chi ha interesse a generare tali entità sovrane, cioè la Russia e i suoi alleati. Oltre tutto, il diritto internazionale ha una gamma di norme che regolano la presenza e il controllo di potenze straniere su un territorio occupato, e qui si aggancia il tema del riconoscimento: perché se lo Stato aggressore struttura una relazione con il territorio occupato in base alla quale quest’ultimo si autoproclama indipendente e sovrano, lo riconosce e trova degli alleati che facciano lo stesso, esso può allora contestare l’applicazione del diritto di occupazione».
La Russia annuncia referendum per l’indipendenza o l’annessione dei territori occupati. Che valore hanno tali votazioni?
«Simbolico, per chi li svolge: a livello internazionale sono ritenuti illegali, senza grosse divergenze fra gli Stati. Persino una grande potenza come la Cina si guarda bene dal validare un mutamento territoriale frutto di un’invasione, in quanto riconosce, almeno a parole, la sacralità dei principi cardine del diritto internazionale che riguardano la non ingerenza negli affari interni e il fatto che i confini non possono essere mutati con la forza. È in pratica un plebiscito per autolegittimare una guerra senza alcuna legittimazione neanche teorica, sia pure quella di rispondere a un attacco. Nel caso dell’invasione Usa dell’Afghanistan, per esempio, il regime dei Talebani ospitava nel Paese il gruppo ritenuto autore degli attacchi dell’11 settembre rifiutando di consegnarne i responsabili agli Usa, quando il diritto internazionale impegna gli Stati a non ospitare sul proprio territorio gruppi politici che minacciano la sicurezza di altri Stati. La guerra in Ucraina invece non ha nessuna legittimazione, non a caso è qualificata come guerra d’aggressione da tutti, tranne da chi l’ha messa in atto»