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Abe, ucciso da occidentale nella terra dei samurai

Assassinato a pistolettate durante un comizio, come il socialista Asanuma nel 1960 (in diretta tv), che però fu trafitto da una spada.

Shinzo Abe, ex premier del Giappone (Keystone)
8 luglio 2022
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Shinzo Abe aveva appena 6 anni quando un giovanissimo ultranazionalista giapponese uccise, durante un dibattito in diretta tv, uno dei politici più importanti del Paese, Inejiro Asanuma, leader del partito Socialdemocratico. L’assassino, che frequentava uno dei gruppi della Uyoku Dantai, l’estrema destra locale, si chiamava Otoya Yamaguchi, fatalmente lo stesso nome della provincia in cui Abe era nato, cresciuto e si era candidato per la prima volta. Per uccidere Asanuma, Yamaguchi si servì di una spada da samurai. Non soddisfatto del primo affondo all’addome, provò a colpirlo una seconda volta al torace. Asanuma morì poco dopo per dissanguamento. Era il 12 ottobre 1960.

Quanto è cambiato il Giappone in oltre sessant’anni lo si capisce anche dall’arma che ieri ha ucciso l’ex primo ministro Abe durante un comizio a Kashihara, nella prefettura di Nara: non più una spada, ma una pistola artigianale a due canne assemblata da un ex militare di 41 anni senza precedenti penali, Testsuya Yamagami, che a Nara viveva dopo aver prestato servizio per tre anni (tra il 2002 e il 2005) in Marina. L’uomo ha cercato di nascondere l’arma prima in uno zaino, poi camuffandola con del nastro isolante nero, facendola assomigliare a un obiettivo fotografico. Anche lui, come Yamaguchi con la spada, non era soddisfatto del primo colpo inferto alla sua vittima: tre secondi dopo ha sparato ancora prima di essere immobilizzato. Anche Abe, come Asanuma, è morto per dissanguamento.

In questa morte al sapore di polvere da sparo, di stampo occidentale, che fa tornare alla mente gli assassinii di John e Robert Kennedy, di Yitzhak Rabin e soprattutto di Olof Palme, il primo ministro svedese freddato sotto casa da due colpi di pistola la sera del 28 febbraio 1986. Stupì il luogo e il modo, la Svezia, così come ci stupisce oggi il Giappone.


L’aggressione ad Anasuma,, nel 1960 (Yasushi Nagao/Wikipedia)

Il sacrificio di Mishima

Anche l’altra celebre morte in diretta, andata letteralmente in scena (come se ci fosse un copione) il 25 novembre del 1970, aveva come protagonista una spada da samurai. E richiamava ancor più dell’assassinio di Asanuma il codice dei samurai, un Giappone che non c’era già più eppure non ha mai smesso davvro di esistere. Il protagonista, regista e infine vittima era lo scrittore Yukio Mishima, che aveva pianificato nei minimi dettagli una messinscena tragica e profondamente giapponese.

Anche lui ultranazionalista, aveva fondato un gruppo paramilitare chiamato Tate no Kai (la Società degli Scudi, composta da 100 ragazzi selezionati da lui): con i quattro membri più fedeli occupò l’ufficio del generale dell’esercito di Autodifesa, Kanetoshi Mashita. Mishima si affaccia dal balcone dell’ufficio e arringa un migliaio di soldati sotto gli occhi di giornalisti e telecamere. Attacca il Trattato di San Francisco, quello che secondo lui ha portato il Giappone all’occidentalizzazione e quindi alla sua fine. Sulla fascia che porta in testa c’è una scritta: "Sette vite al mio Paese. Lunga vita all’Imperatore". Le stesse parole che Yamaguchi aveva scritto, tre settimane dopo il suo arresto, sul muro della sua cella impastando il dentifricio con un po’ d’acqua. Erano anche le ultime di Kusunoki Masashige, un eroe nazionale del quattordicesimo secolo che riassume la lealtà di tutti i samurai.

Mishima volle mettere in scena fino in fondo il sacrificio rituale che aveva in mente: rientrò nell’ufficio per praticare il seppuku, il rito suicida tradizionale, che affonda le origini addirittura al 1180. Il seppuku è "la morte onorevole" e consiste nel trafiggersi l’addome con una katana (per liberare la propria anima). A quel punto spetta ad altri – nel caso specifico al suo più fedele seguace (e secondo molti l’amante) Masakatsu Morita – decapitarlo affinché il suo volto non resti contratto in una smorfia di dolore. Morita però, preso dal panico, sbaglia per due volte la mossa. Spetterà a Hiroyasu Koga il ruolo di kaishakunin (colui che decapita il suicida), ufficialmente l’ultimo della storia del Giappone.


Il discorso di Mishima dal balcone prima di togliersi la vita (Keystone)

Socialisti e conservatori

Anche Yamaguchi cercò di togliersi la vita in questo modo, senza riuscirci. Scegliendo infine una "meno onorevole", per lui e per i codici giapponesi, impiccagione. La sua vittima, Asanuma, era un convinto sostenitore del socialismo e del Partito Comunista cinese. Un anno prima di essere ucciso aveva dichiarato, durante un viaggio in Cina, che il nemico del Giappone erano gli Stati Uniti. Scese poi dall’aereo con una giacca maoista, facendo arrabbiare perfino i compagni di partito.

Quello era un Giappone, e un mondo, profondamente ideologico: la polarizzazione estremizzata dalla rivalità Usa-Urss portava alle guerre nel sud-est asiatico, alle dittature sudamericane, al terrorismo in Italia.

Il gesto estremo di ieri nei confronti di Abe, con una pistola artigianale a sostituire le spade, con un movente che non va in là di un generico odio per una vita insoddisfatta e che nulla ha più a che fare con la logica fuoritempo dei samurai è una simbolica entrata in una modernità, sebbene malata, in un’occidentalizzazione forzata voluta e cercata dallo stesso Abe nel periodo in cui è rimasto alla guida del suo Paese.


L’aggressore di Abe viene fermato (Keystone)

Come in "Taxi Driver"

Il killer ricorda il Travis Bickle di Taxi Driver, un uomo che sente di non avere più nulla - e quindi nulla da perdere - per colpa di una società che volta le spalle a chi non riesce stare al passo. Quando finiscono le parole e le speranze c’è chi sceglie un bersaglio e spara: nel film di Scorsese l’obiettivo è il senatore Charles Palantine, ma poteva essere chiunque altro. Per Bickle (che a differenza del killer di ieri viene fermato per tempo), Palantine è il simbolo dell’ipocrisia della società.

Ieri a Nara è andato in scena qualcosa di molto simile, spaventando il Giappone, ma anche l’Occidente, che vede i suoi istinti peggiori allargarsi. Si uccide per impotenza, per sfinimento. Ad aprile si era licenziato dalla ditta manifatturiera in cui andava a timbrare il cartellino dall’autunno del 2020. A chi gli chiese perché rispondeva che era stanco. Ieri alla polizia giapponese ha riposto che odiava Abe, che aveva rancore verso un’organizzazione legata a lui. Alla fine ha sparato in un angolo di mondo dove sparare è quasi impossibile e l’uso delle armi è concesso a pochissimi. Persino gli agenti di sicurezza che lo hanno fermato non hanno sparato un colpo. Per essere sicuro di avere un’arma ha dovuto costruirsela da sé.

E dire che l’uomo che aveva riarmato il Giappone (il cui pacifismo era stato scritto nella Costituzione dopo le bombe di Hiroshima e Nagasaki) era stato proprio Abe, convinto sostenitore di un Paese più forte, meno timido nelle relazioni internazionali e meno subalterno agli Stati Uniti, di cui è riuscito a diventare alleato.

Nipote di un ex premier e figlio dell’ex ministro degli Esteri rilanciò l’economia, si batté per le Olimpiadi di Tokyo 2020 arrivando persino a travestirsi da Mario Bros e cercò anche di rivedere lo studio della storia nelle scuole per non crescere più generazioni con i sensi di colpa. Era un orgoglioso conservatore di stampo occidentale, e per questo motivo voleva entrare nei libri di storia. Ci entrerà, ma da vittima sacrificale, la prima - a quelle latitudini - uccisa proprio come un leader occidentale.


Edizione speciale per la morte di Abe (Keystone)

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