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L’Ucraina tra Joe ‘il dormiglione’ e Vladimir ‘il macellaio’

Che ruolo hanno avuto gli Usa di Biden in questo conflitto e nella risposta europea? Quali gli errori Nato? Un’intervista per capirci di più

(Keystone)
14 aprile 2022
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"Macellaio", "criminale di guerra", uno che "non può restare al potere". Gli epiteti che Joe Biden ha rivolto a Vladimir Putin non paiono proprio uscire dal Galateo della diplomazia internazionale. Ma cosa ha fatto davvero il presidente Usa per aiutare l’Ucraina? E cosa ci insegna l’amministrazione americana – con tutte le sue parole, opere e omissioni – sul ruolo che Washington intende rivestire in questa crisi? Ne parliamo con Dana Allin, Senior fellow per la politica estera Usa e le relazioni transatlantiche all’Istituto internazionale di studi strategici di Londra (Iiss), nonché direttore della rivista ‘Survival’.

Biden e la sua amministrazione hanno fornito armi all’esercito ucraino e imposto a Mosca sanzioni anche più pesanti di quelle europee, come nel caso del petrolio. È la mossa giusta?

Al di là delle armi e delle sanzioni, credo che Biden sia stato abile nella gestione dei suoi alleati europei all’interno della Nato: ne ha saputo incentivare l’unità nella reazione contro Putin, senza però che si sentissero ‘commissariati’. Si è trattato di un buon esercizio di diplomazia e moderazione che ha spinto gli alleati a muoversi senza l’impressione che fosse Washington a spingerli. Prendiamo la Germania: lo stop alla realizzazione del gasdotto Nordstream 2, le sanzioni e la scelta di investire più denaro nel proprio esercito sono maturati autonomamente. Allo stesso tempo Biden è stato schietto nel suo sostegno alla difesa ucraina, ma anche attento a non commettere quegli eccessi che avrebbero potuto scatenare un confronto diretto con una potenza nucleare come la Russia.

Pare che Biden sia intervenuto per frenare Polonia e Slovacchia: volevano fornire all’Ucraina aerei e missili che potrebbero essere decisivi in Donbass; tutto quel che chiedevano in cambio era la garanzia di difesa Nato in caso di rappresaglie. Codardia o prudenza?

È possibile che Biden si sia attivato per frenare Polonia e Slovacchia. Ma considerato il rischio di escalation legato a una mossa del genere, credo che sarebbe ingeneroso definirlo per questo un codardo.

Le parole usate dal presidente Usa contro Putin sono state durissime, ai limiti dell’insulto. A che pro? Così non si peggiora la situazione?

Penso che Biden abbia chiamato Putin "macellaio" e abbia detto che non deve rimanere al potere semplicemente perché era davvero indignato. Chiaramente si tratta di parole che suonano come un’allusione alla volontà di cambiare regime a Mosca, ma non mi pare che questa sia una priorità operativa degli Stati Uniti, così come non credo che certi epiteti cambino granché nelle relazioni tra la Russia e l’Occidente, già fortemente compromesse.

Non è che ‘Joe il dormiglione’, come lo chiamava Donald Trump, abbia scelto certe espressioni anche per fare il ‘duro’ e rivendersi in patria come Commander in Chief, lui che molti vedono debole e senile? Dopotutto, le elezioni di metà mandato si avvicinano.

C’è sempre un’elezione dietro l’angolo, e con essa il bisogno di lucidare la propria immagine di fronte agli elettori. Però non credo che questa sia la sua prima preoccupazione. La politicizzazione del conflitto in seno al dibattito interno americano è più sottile. Intanto Biden può avvantaggiarsi del significativo consenso tra gli americani quando si tratta di identificare chi è l’aggressore e chi l’aggredito in questa guerra. Inoltre l’invasione ha creato grandi imbarazzi tra i repubblicani dopo quanto rivelato dal primo impeachment di Trump: era emerso che aveva cercato di agevolare la rielezione alla Casa Bianca bloccando aiuti militari a Volodymyr Zelensky, per convincerlo ad avviare un’indagine assolutamente insensata contro il figlio di Biden, Hunter.

Se allarghiamo lo sguardo al ruolo storico degli Usa, c’è chi dice che tra le cause di questo conflitto vi sia l’allargamento della Nato, che avrebbe spinto la Russia a sentrisi ‘accerchiata’. Che ne pensa?

Sulla responsabilità politica e morale di questo conflitto non sussiste assolutamente alcun dubbio: è di Putin, che ha scelto di aggredire senza aver subito alcuna provocazione. Il Cremlino teme piuttosto un’Ucraina democratica che guardi a Occidente. Ciò detto, è possibile sostenere che l’allargamento della Nato – pur determinato anzitutto dalla spinta dei Paesi che di volta in volta domandavano di entrarvi – si sarebbe potuto gestire con più cautela.

Quali furono gli errori?

Al summit di Bucarest del 2008 la Nato promise l’ingresso a Georgia e Ucraina, anche se in realtà non aveva alcuna intenzione di dar seguito a quella promessa. Il risultato è stato di provocare Mosca senza fornire reale protezione a quei due Paesi. Un altro insuccesso – che d’altronde non si deve necessariamente attribuire all’Occidente o solo a esso – è stato non riuscire a coinvolgere la Russia in un sistema di sicurezza condiviso per l’Europa. Si sarebbe potuto dare più ampio respiro al progetto ‘Partnership for Peace’, che mirava a sviluppare tale architettura coinvolgendo i Paesi dell’Europa orientale e la stessa Russia. Ma ripeto: non si tratta di errori da imputare esclusivamente alla Nato, e in ogni caso essi non giustificano in alcun modo l’invasione russa dell’Ucraina.

Ora che per stanchezza l’indignazione internazionale rischia di affievolirsi, le vecchie divisioni tra le democrazie occidentali riprenderanno il sopravvento?

È difficile dirlo. Quello che abbiamo visto è stato senz’altro un momento di coesione tale da spazzar via vecchi cumuli di cinismo e insicurezze: perfino la Germania si è mossa rapidamente contro la Russia, nonostante i legami storici ed economici tra i due Paesi. È possibile che la stanchezza rinfocoli vecchie divisioni e dissapori, specie quando si comincerà a intravedere qualche possibilità di accordo. Intanto, però, gli sviluppi recenti ci hanno fatto vedere che un Occidente unito è più forte della Russia, e che sia la cooperazione intraeuropea, sia quella transatlantica sono la strada da percorrere quando si devono affrontare certe minacce. Questa esperienza potrebbe fungere da stimolo per un’ulteriore integrazione, più che per nuove divisioni.

Negli ultimi anni gli Usa sono apparsi sempre più come un "poliziotto stanco", espressione che dà il titolo a un’opera della quale è co-autore (Routledge, 2012). È ancora possibile pensare a un ‘blocco occidentale’ capace di affermare un suo potere e una sua ragion d’essere?

La ‘stanchezza’ degli Usa deriva soprattutto dalle disastrose guerre che George W. Bush ha avviato in Medio Oriente. Inoltre gli Stati Uniti individuano in Asia la loro nuova priorità strategica e di difesa. Questo significa che in futuro l’alleanza transatlantica dovrà poter contare sempre di più sugli sforzi dei Paesi europei. Credo che questo potrebbe condurre a un riequilibrio tra i piatti dell’alleanza: la disponibilità europea a investire più risorse nel settore militare è solo uno dei segnali di quello che potrebbe dimostrarsi un ruolo più attivo del continente nella sua stessa difesa. Tale scelta potrebbe a sua volta generare una politica estera più coesa.

Così però guardiamo ancora all’equilibrio tra potenze coi vecchi occhiali di chi pensa che l’Occidente sia il centro del mondo. Non dovremmo semplicemente lasciar perdere certe alleanze d’antan e ripensarci in un mondo multipolare?

Certamente dobbiamo riconoscere l’emergere di un ordine multipolare e impegnarci a coinvolgere le potenze emergenti come la Cina in un sistema internazionale basato su regole condivise. Allo stesso tempo, però, la guerra in Ucraina ci fa vedere che dobbiamo ancora affrontare enormi minacce a tale sistema: è in momenti come questi che la cooperazione transatlantica rimane una priorità.

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