Estero

Maxi frode fiscale in Italia, coinvolta una società svizzera

Sarebbero transitati per una società elvetica parte dei proventi illeciti di una frode in cui sono coinvolte società che si occupano di spazi pubblicitari

(Depositphotos)
12 aprile 2022
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Sarebbero stati trasferiti, in parte, anche a una società svizzera, oltre che una croata, i proventi di una presunta maxi frode fiscale al centro di un’inchiesta della Procura e della Guardia di finanza di Milano che ha portato ad un sequestro da 28 milioni e ai domiciliari quattro imprenditori e manager, tra cui un ex amministratore della Clear Channel, colosso nella cartellonistica pubblicitaria e non solo e che nel 2018 ha fatto scattare un’indagine interna, presentato denuncia e licenziato il suo dipendente.

Un complesso "schema" di frode fiscale nel settore della pubblicità, che si sarebbe basato soprattutto su finte "campagne di reclamizzazione a favore" di testate editoriali e col quale sarebbe stata realizzata una "evasione Iva stimabile in circa 30 milioni di euro dal 2016 al 2019".

Stando agli accertamenti del Nucleo di polizia economico finanziaria, coordinati dal pubblico ministero Paolo Storari e con l’ausilio dell’Agenzia italiana delle entrate, è venuta a galla una presunta associazione per delinquere (contestato anche il riciclaggio oltre alla frode fiscale) che nell’ambito del "Press deal", ossia servizi pubblicitari per gli editori, avrebbe simulato acquisti e vendite di spazi. E così con un reticolo di società e fatture per prestazioni inesistenti si sarebbe creato "un credito IVA fittizio", generato "dalla diversa aliquota applicata tra gli acquisti (22%) e le vendite (4%)", a vantaggio della "concessionaria dei servizi pubblicitari", ossia Clear Channel, con evasione delle imposte. I profitti illeciti del raggiro all’Erario, poi, sarebbero stati in parte trasferiti in società croate e svizzere e usati "per l’acquisto di appartamenti" in "un complesso immobiliare alberghiero a Panama".

L’ex amministratore di Clear Channel Jolly Pubblicità srl, Paolo Dosi, come si legge nell’ordinanza del giudice per le indagini (gip) Lorenza Pasquinelli, avrebbe messo in piedi anche un "archivio digitale" con "immagini ritoccate ad hoc, utili solo a simulare le operazioni commerciali", fingendo pure di "reclamizzare" la testata Playboy (il noto marchio editoriale non è coinvolto). In pratica, quei "fotomontaggi", che sembravano ritrarre locandine destinate a "pubblicizzare" riviste fuori dalle edicole, dovevano servire come "prova nell’eventualità di controlli provenienti da organi societari interni non consapevoli di tali malversazioni".

Le criticità riscontrate, scrive ancora il gip, "risultano comuni a tutti i rapporti che Clear Channel", come concessionaria, "intratteneva con i clienti di questa filiera commerciale: Edizioni Adesso Srl, App Media Group Spa ed Adwin Srl e che a monte, in veste di fornitore della Clear Channel, vedeva esclusivamente Media Market". Da un’intercettazione telefonica tra Dosi e la persone ritenuta "amministratore di fatto di Portobello spa" e "di diritto di Media Market" fino al 2017, risulta che i due puntavano ad "ottenere un finanziamento" per acquistare 100/150 chioschi di edicole" tra Roma e Milano. Arrestati anche Giorgio Fallica, "amministratore di fatto di App Media Group", e Paolo D’Amico, manager di Joy srl e Creative Media Doo.

Sono coinvolte alcune società che si occupano di spazi pubblicitari e campagne, come i cartelloni collocati nelle città, tra cui Clear Channel e Portobello. È contestato anche il reato di riciclaggio e sono stati sequestrati circa 28 milioni di euro. Le indagini, condotte dalla GdF con l‘ausilio della Divisione Contribuenti/Settore Contrasto Illeciti dell’Agenzia delle Entrate di Milano, hanno consentito "di ricostruire l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di un complesso meccanismo di frode fiscale, ideato e denominato dagli stessi indagati ‘Press Deal’, attraverso la simulazione dell’acquisto e della vendita di spazi pubblicitari tra le società coinvolte".

Gli imprenditori indagati avrebbero messo in piedi "uno schema fraudolento attraverso il quale, facendo circolare fatture relative a prestazione inesistenti, con aliquote Iva diverse, determinavano un credito Iva fittizio a favore della società avente il ruolo di concessionaria dei servizi pubblicitari, con evasione d’imposta stimabile in circa 30 milioni di euro dal 2016 in poi, generato dalla diversa aliquota applicata tra gli acquisti (22%) e le vendite (4%)". Avrebbero distratto "i capitali sottratti a tassazione tramite i pagamenti che la concessionaria della pubblicità eseguiva a favore del proprio fornitore" e "autoriciclavano tali risorse, trasferendole verso società conniventi italiane ed estere che provvedevano alla relativa spartizione dei profitti della frode".

Le somme illecitamente conseguite e trasferite in Svizzera e Croazia sarebbero poi state impiegate "per l’acquisto di appartamenti ubicati presso un complesso immobiliare alberghiero a Panama".

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