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James Webb Space Telescope, sempre più vicini al Big Bang

Sta per essere messo in orbita il nuovo telescopio spaziale. Continua il viaggio dell’uomo nel passato. Verso le origini dell’universo

Una nuova rivoluzione per l’astronomia
(Keystone)
23 dicembre 2021
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Il conto alla rovescia è cominciato. Il lanciatore Ariane 5 si appresta a mettere in orbita il James Webb Space Telescope (JWST), il più grande, pesante e sofisticato mai costruito e inviato nello Spazio. Un telescopio spaziale che continuerà il grande viaggio dell’uomo nel passato verso le origini dell’universo, viaggio che negli ultimi 30 anni ha visto una forte accelerazione con i numerosi rivoluzionari risultati scientifici del Telescopio spaziale Hubble (Hubble ST). Con il James Webb ST, risultato della collaborazione fra Nasa, Agenzia spaziale europea (Esa) e Agenzia spaziale canadese (Csa), ci avvicineremo alle prime luci dell’universo dopo il Big Bang.

C’era una volta il cannocchiale di Galileo

Di generazione in generazione abbiamo sviluppato strumenti per osservare la volta celeste sempre più potenti e sofisticati. Tecnologicamente ne abbiamo fatta di strada dal primo cannocchiale costruito da Galileo che ha permesso all’uomo di vedere i crateri sulla Luna, gli anelli di Saturno e le Lune di Giove, definite satelliti Medicei, che confermavano la teoria Copernicana eliocentrica perché ruotano attorno a Giove e non alla Terra come prevedeva il geocentrismo. Osservazioni all’epoca rivoluzionarie per l’astronomia, frutto dell’ingegno di Galileo che si era costruito il cannocchiale con le sue particolari innovative lenti. E rivoluzionario è (stato) anche l’Hubble Space Telescope, il primo telescopio ottico a essere messo in orbita, che ci ha mostrato oggetti celesti mai visti, fino alle prime galassie costituite un miliardo di anni dopo il Big Bang. E rivoluzione sarà di nuovo con James Webb ST, che andrà ancora più indietro nel tempo, alle prime luci che si sono accese nel giovane universo dopo la sua fase iniziale opaca. Rivoluzioni nella conoscenza della struttura e della formazione dell’universo a ritroso, dai giorni nostri al Big Bang, realizzate grazie alla costruzione di sempre nuovi e performanti strumenti.

Occhi speciali fuori dell’atmosfera

Strumenti per studiare l’universo che solo da pochi decenni grazie alle tecnologie spaziali mettiamo in orbita per poter vedere meglio e più lontano, evitando il disturbo dell’atmosfera terreste turbolenta in continuo movimento per la variabilità delle temperature, fenomeno visibile a occhio nudo nel tremolio delle stelle, atmosfera composta da atomi e molecole che assorbono diverse tipologie di radiazioni.

Il primo ‘telescopio’ messo in orbita fu Huhuru nel 1970: scannerizzò la volta celeste alla ricerca di sorgenti di raggi X, che assieme ad altre radiazioni, non propriamente sane, fortunatamente vengono assorbite dall’atmosfera. Quindi occorre giocoforza ‘andar fuori’ per cercarle nell’universo.

Huhuru fu posizionato su un’orbita a circa 550 km di altezza e permise di rilevare circa 300 oggetti celesti che emettevano raggi X tra i quali la conferma di Cygnus X1, osservato nel 1963 con uno strumento rudimentale montato su un razzo non orbitante. Cygnus X1 negli anni Novanta del secolo scorso è stato identificato come un buco nero, il primo rilevato dagli astronomi. Il satellite Huhuru produsse una mappa delle sorgenti di raggi X dell’universo con una risoluzione angolare di pochi decimi di grado.

Dopo Huhuru sono stati messi in orbita diversi telescopi spaziali per raggi X, gamma, nell’ultravioletto o infrarosso con strumenti di risoluzione sempre più elevata e sistemi di puntamento sempre più precisi. Attualmente in orbita abbiamo XMM, Integral, Chandra, Herschell, Planck dell’ESA e della NASA.

Tecnologie sempre più avanzate come SAX, il satellite astronomia a raggi X e gamma italo-olandese al quale ho avuto l’opportunità di lavorare per quel che riguardava il sistema di controllo d’assetto e d’orbita, che serve per orientare il satellite con i suoi strumenti sugli oggetti celesti da analizzare: sistema che su SAX dopo qualche anno in orbita ha dovuto essere riparato a seguito del progressivo degrado e perdita finale di tutti i giroscopi (servono a misurare la rotazione nei tre assi del satellite, sensori oggi miniaturizzati e che abbiamo anche negli smartphone). La riparazione consistette in un nuovo algoritmo (il software) per il calcolatore del sistema di controllo d’orbita e assetto sviluppato e simulato a Terra e in seguito telecaricato sul calcolatore. Fu il primo satellite stabilizzato su tre assi a funzionare senza giroscopi (gyroless).

SAX o BeppoSAX, come fu poi ribattezzato in onore dell’astrofisico italiano Giuseppe Occhialini, pur senza giroscopi permise di rilevare per la prima volta la fonte di un lampo di raggi Gamma la cui origine è poi stata associata a fenomeni stellari ai confini dell’universo. Le esplosioni di raggi gamma sono i più potenti fenomeni rilevabili nell’universo, seconde solo al Big Bang. Scoperte che valsero al team scientifico di BeppoSAX nel 1998 il Premio Bruno Rossi della Società astronomica americana.

La grande differenza tra BeppoSAX e Hubble ST non stava solo nella diversa gamma di frequenze delle radiazioni da loro osservate e indagate, ma soprattutto nelle modalità di riparazione. BeppoSAX è stato riparato con il telecaricamento da Terra di un nuovo software. Hubble ST è stato invece riparato più volte manualmente nello Spazio. A Hubble ST i giroscopi furono infatti sostituiti fisicamente con una missione dello Shuttle.

Hubble ST, cose mai viste

La progettazione di Hubble ST fu avviata negli anni Settanta dello scorso secolo, contemporaneamente con la concezione della navetta spaziale – lo Space Shuttle – riutilizzabile annunciata dalla NASA nel 1972, decisione che inchiodava Von Braun all’orbita terrestre, lui che dopo aver raggiunto la Luna mirava a Marte. Navetta che però prometteva l’accesso allo Spazio vicino, quasi incondizionato e regolare, a costi bassi, non dovendo gettare ogni volta il classico costoso lanciatore monouso. Sappiamo come è andata a finire: costo di un miliardo dollari per lancio, 14 astronauti periti in due terribili incidenti, in totale 135 lanci suddivisi su 5 navette, definitivamente atterrate nel 2011 e donate a musei, dopo aver dovuto giocoforza concludere la costruzione della Stazione spaziale i cui elementi erano stati progettati per essere trasportati e montati assieme con la navetta.

Hubble ST fu però l’unico satellite a poter essere fisicamente riparato ed aggiornato in orbita tanto da prolungarne la vita ben oltre i 5-10 anni previsti inizialmente: messo in orbita nel 1992 è ancora in funzione sebbene senza servizi da oltre 10 anni. Si spera di poterlo usare ancora fino al 2025. In questi quasi trent’anni Hubble ST ha effettuato oltre un milione di osservazioni che hanno di nuovo rivoluzionato le nostre conoscenze dell’universo nel visibile, un salto conoscitivo simile a quanto Galileo fece nel 1609 con il suo cannocchiale.

Le colonne della creazione

Hubble ST è diventato un telescopio popolare, ci ha offerto fantastiche immagini di corpi celesti e fenomeni che non si conoscevano. Tra le più impressionanti e spettacolari le Pillar of Creation del 1995, colonne di gas intrastellare nella nebulosa Aquila con dei nuclei di stelle giovani. Molte immagini riprese da questo sofisticato strumento sono passate dal mondo scientifico al grande pubblico.

Con osservazioni di Hubble ST di Supernove lontane 9 miliardi di anni, l’astronomo, presso lo Space Telescope Science Institute a Baltimora, Adam Riess ha scoperto che l’espansione dell’universo sta accelerando, e non diminuendo come si ipotizzava: ci sarebbe la cosiddetta energia oscura, un fenomeno non ancora spiegato. La scoperta è valsa il Nobel per la fisica a Riess nel 2011 assieme a Saul Perlmutter e Brian Schmidt.

Nuova pietra miliare dell’esplorazione dell’universo: un’esposizione di Hubble ST durata 100 ore della deep field camera ha portato alla luce in un oscuro settore dell’universo oltre 500 giovani galassie allo stato di oltre 12,5 miliardi di anni fa, la fotografia del passato più lontano finora realizzata, la più vicina alle origini dell’universo. Una foto rivoluzionaria come lo furono le scoperte di Galileo del 1609.

Con una precisione di puntamento di 2 milionesimi di grado, uno specchio di 2,8 metri e un peso di 11 tonnellate, Hubble ST rappresenta finora il più grande e preciso strumento messo in orbita, progettato per essere alloggiato nella stiva della navetta per trasportarlo su un’orbita di 600 km, ben al di fuori dell’atmosfera terrestre e oltre l’orbita della Stazione spaziale internazionale che si situa a circa 400 km.

Riparazioni nello Spazio

Hubble ST è una missione eccezionale per qualità e risultati scientifici, ma anche per durata (dal 1991) grazie all’originale concetto, figlio dell’era della navetta, che prevedeva regolari missioni di servizio in orbita permettendo di prolungare la durata di vita al telescopio spaziale più pesante messo in orbita. Fino al James Webb ST.

Hubble ST arrivò nello Spazio con un grande difetto di messa a fuoco, dovuto a un banale errore di lavorazione allo specchio. Una catastrofe. Prontamente si installò nel telescopio, che era già in orbita, una lente di correzione. Fu la prima di cinque missioni, della navetta, di servizio e riparazione, due delle quali con l’astronauta svizzero Claude Nicollier, astronomo di formazione. Durante le cinque missioni si sostituirono i pannelli fotovoltaici, i giroscopi, il calcolatore. Vennero inoltre installati nuovi strumenti scientifici e finalmente anche un aggregato per la deorbitazione.

Riparazioni che non saranno più possibili con il James Webb Space Telescope, che non orbiterà più a 600 km dalla superficie della Terra, ma che verrà posizionato a 1,5 milioni di km dalla Terra. James Webb ST ha uno specchio di dimensioni doppio a quello di Hubble ST, protetto da uno schermo di 5 sottilissimi teli di capton di 0,02 mm di spessore e larghi 20 metri. Un colosso ma tecnologicamente da fantascienza, con un sensibilissimo occhio nel vicino e medio infrarosso per vedere oggetti celesti che si stanno allontanando e che si stimano nati 13,5 miliardi di anni fa, ovvero circa 400 milioni di anni dopo il Big Bang. Una progressione di un miliardo di anni per rapporto alle galassie più giovani scoperte da Hubble ST.

Il Redshift con il nuovo telescopio

L’espansione dell’universo è stata scoperta dall’astronomo Edwin Hubble negli anni Trenta del secolo scorso. Dagli anni Novanta grazie a Hubble ST sappiamo che è un’espansione accelerata: la distanza della Terra dalle lontanissime galassie primordiali cresce continuamente, movimento che allunga la lunghezza d’onda della luce emessa da queste galassie, uno spostamento della frequenza della luce visibile detto verso il rosso o redshift. Per poter vedere questi lontanissimi oggetti che in più si allontanano, James Webb ST guarderà nell’infrarosso con una sensibilità 100 volte più alta di Hubble ST. Potrebbe vedere dalla Terra la luce di una candela accesa su Giove.

James Webb ST esaminerà anche la composizione degli oggetti celesti dissezionando la luce infrarossa per identificare gli elementi, atomi e molecole, che si trovavano nell’ormai lontanissimo materiale d’origine dell’universo ma anche nell’atmosfera di esopianeti più vicini, pianeti che non appartengono al Sistema solare (il nostro), orbitando intorno ad altre stelle. Il primo esopianeta è stato scoperto nel 1995 dagli astronomi svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz, premi Nobel.

Con James Webb ST, frutto della collaborazione ESA, NASA e Agenzia Spaziale Canadese, partiamo verso una nuova rivoluzione delle conoscenze sulla formazione e l’evoluzione dell’universo.

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