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San Suu Kyi incriminata anche per frodi elettorali

Un altro capo di imputazione contro il Nobel, l’undicesimo, che non lascia dubbi sull’intenzione dei militari di eliminare lei e l’intera opposizione

16 novembre 2021
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Un altro capo di imputazione contro il Nobel, l’undicesimo, che non lascia dubbi sull’intenzione dei militari di eliminare lei e l’intera opposizione.

“La Signora”, detenuta in luogo segreto dal colpo di Stato dello scorso febbraio, dovrà rispondere ora anche dell’accusa di frode elettorale relativa al voto del novembre 2020, in cui il suo partito trionfò. Per Suu Kyi, che già rischia una pena cumulativa di 102 anni di carcere, è ormai un calvario legale da cui non si vede una via di uscita.

Suu Kyi, 76 anni, e altri quindici funzionari del suo partito (tra cui l’ex presidente della repubblica Win Myint) e della precedente Commissione elettorale saranno processati per una serie di “frodi elettorali e azioni illegali” in connessione alle elezioni legislative in cui la “Lega nazionale per la democrazia” (Nld) ottenne l’8% dei seggi, umiliando il partito rappresentante degli interessi dell’esercito. Gli atti contestati vanno dall’ostruzione di seggi dove votavano soldati, liste elettorali gonfiate da non aventi diritto al voto, e sostegno della Commissione elettorale alla campagna dell’Nld.

L’annuncio dei nuovi capi di imputazione è stato dato dai media statali, che non hanno aggiunto la data in cui inizierà il processo. Suu Kyi è comunque già gravata da un’altra decina di accuse che vanno dalla corruzione alla violazione di segreti ufficiali. Tutte le udienze si sono finora tenute a porte chiuse, e gli avvocati del premio Nobel per la Pace hanno il divieto di rilasciare dichiarazioni ai media.

Suu Kyi, che non è mai comparsa in pubblico dal momento dell’arresto, rischia di fatto l’interdizione perenne dalla politica, e il suo partito un probabile scioglimento forzato che gli impedirebbe di schierare candidati in elezioni che la giunta militare ha promesso nei prossimi due anni.

La sorte di Suu Kyi riflette quella del suo Paese. Il suo rilascio dagli arresti domiciliari nel 2010, dopo complessivamente 15 anni di reclusione, segnò l’inizio della graduale riapertura dell’allora giunta militare. La salita al potere di Suu Kyi nel 2015, per quanto in tesa coabitazione con i generali, segnò il culmine della volontà popolare. E ora il pugno di ferro del generale golpista Min Aung Hlaing fa trasparire l’intenzione della giunta di tirare dritto senza compromessi.

Almeno 1’200 morti nelle proteste da febbraio, un movimento ormai armato di insurrezione, le condanne internazionali, un’economia allo sfascio: niente sembra in grado di fermare il brusco ritorno della Birmania al passato, e al contempo la progressiva uscita di scena della “Signora” la cui causa appassionò il mondo.

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