Estero

La lezione indiana sull’immunità di gruppo

Nuove varianti, tra cui la B.1.617 con la sua doppia mutazione, un generale rilassamento delle norme anti-contagio: possibili risposte all’enigma dell’impennata di casi in India

Gli ospedali non possono più accogliere pazienti (Keystone)
3 maggio 2021
|

Un tragico susseguirsi di primati: l’India prosegue con il record mondiale di contagi e di morti; i dati annunciati domenica vedono 392’488 nuovi positivi e – per la prima volta in leggero calo rispetto al giorno precedente – 3’689 morti. Vero che parliamo del secondo stato per popolazione e, con circa 1,39 miliardi di abitanti, il numero di contagi e di morti per milione di abitanti è inferiore a quello di altri Paesi, ma i dati comunicati dal Ministero della sanità, vista la difficile situazione del sistema sanitario, sottostimano il reale impatto del virus. La percentuale di test positivi – un valore che, se superiore al 10 per cento è considerata indizio di un rilevamento insufficiente – ha superato la soglia del 20 per cento a livello nazionale ma in alcuni centri è ben più elevata: come l’epidemiologa Aqsa Shaikh ha dichiarato all’emittente canadese Cbc, nel suo istituto a Nuova Delhi la percentuale è del 60-70 per cento.

Come ha spiegato Rita Cenni (vedi articolo principale), il problema riguarda in primo luogo scelte politiche e sanitarie che hanno portato a ritardi nella campagna vaccinale e a un prematuro rilassamento delle misure anti-contagio. Ma a preoccupare è anche il diffondersi di nuove varianti del virus, come la più contagiosa B.1.1.7, la cosiddetta “variante inglese”, e soprattutto la B.1.617, ormai conosciuta come “variante indiana”, che presenta una doppia mutazione della proteina Spike che il virus utilizza per infettare le cellule (e che costituisce il “bersaglio” dei vaccini). È difficile valutare se e in che misura quest’ultima variante sia responsabile dell’impennata di casi: da alcune ricerche preliminari B.1.617 potrebbe essere più contagiosa e ridurre leggermente l’immunità delle persone guarite, mentre il Gupta Lab di Cambridge ha anticipato che non ci sarebbero grossi problemi per quanto riguarda l’efficacia dei vaccini, un dato che, anche se confermato, è scarsamente significativo per l’India visti i già ricordati ritardi nella campagna vaccinale. Si tratta comunque di risultati provvisori e, dal punto di vista scientifico, la situazione epidemiologica in India rimane un enigma, come ha scritto su ‘Nature’ Smriti Mallapaty.

Un enigma perché verso gennaio-febbraio i casi erano relativamente pochi e si pensava che l’India, grazie anche alla sua popolazione giovane (metà della popolazione ha meno di 28 anni) avesse sostanzialmente sconfitto il virus, raggiungendo con la prima ondata la tanto discussa “immunità di gruppo” che si ottiene quando una parte significativa della popolazione non può più essere contagiata e protegge, ostacolando la diffusione del virus, anche chi non è ancora immune. A conferma di ciò, una campagna di test sierologici condotta tra dicembre 2020 e gennaio 2021 aveva trovato anticorpi in oltre la metà della popolazione di alcune grandi città. Numeri che adesso si sospetta non rappresentativi della reale situazione, come ha dichiarato a ‘Nature’ l’epidemiologo Ramanan Laxminarayan: la prima ondata ha colpito soprattutto i poveri nelle città, una disuguaglianza di cui forse non si è tenuto sufficientemente conto nel progettare lo studio. “Forse stiamo assistendo a un’epidemia che si sta semplicemente spostando in parti della popolazione che erano meno colpite nelle ondate precedenti” ha dichiarato al ‘Financial Times’ Nimalan Arinaminpathy dell’Imperial College di Londra, senza tuttavia escludere l’effetto, appunto, delle varianti che, rendendo più probabili le reinfezioni, riduce il numero di persone che di fatto non possono ammalarsi, alzando la soglia che è necessario raggiungere per l’immunità di gruppo.

I dubbi sono diversi e si spera di riuscire presto a fare chiarezza. Ma qualche conclusione è già possibile trarla. La prima è che l’immunità di gruppo va cercata vaccinando più persone possibile, non “lasciando correre il virus”. E questo non solo per il costo molto alto – certamente esacerbato, nel caso indiano, dalle condizioni del sistema sanitario e da scelte politiche – che una simile strada comporta, ma anche perché, ed è la seconda conclusione che possiamo trarre, più il virus corre, più muta e più muta più è probabile che emergano delle ‘variant of concern’, delle varianti che preoccupano le autorità sanitarie. B.1.617, come detto, non sembra avere caratteristiche troppo inquietanti, ma è concreto il rischio che prima o poi, da qualche parte nel mondo, una qualche mutazione conferisca al virus la capacità di evadere almeno parzialmente la risposta immunitaria, anche quella dovuta ai vaccini. Il che non ci porterebbe alla situazione di un anno fa, ma sposterebbe un po’ in là il tanto atteso ritorno alla normalità. Il che ci porta alla terza conclusione: l’immunità di gruppo non è una cosa che può raggiungere un Paese solo ma è necessariamente globale. Si è detto più volte che l’India è indietro con i vaccini: vero, soprattutto se si tiene conto che è uno dei principali produttori. Ma in una classifica mondiale è più o meno a metà: buona parte del pianeta ha vaccinato ancora meno dell’India. E, come ripete spesso il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, “nessuno sarà al sicuro finché ognuno non sarà al sicuro”.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE