Una bozza non firmata e circolata ad alti livelli prevede lo smembramento della Bosnia, un'altra - targata Ue - vuole la pace a ogni costo tra Kosovo e Serbia
“Si vis pacem, para bellum”, dicevano gli antichi romani: se vuoi la pace, prepara la guerra. Quasi duemila anni dopo la Slovenia sembra voler invertirne il senso, gettando una carta altamente infiammabile nella polveriera più polveriera d’Europa e ricalcando la strategia che, secondo il segretario particolare di Napoleone Bonaparte, Louis Bourrienne, meglio s’attagliava all’imperatore: se vuoi la guerra, prepara la pace.
La questione è tanto semplice quanto complessa e – parlando di Balcani – non sorprende affatto. Da un paio di settimane gira sui tavoli diplomatici dell’Unione europea e delle repubbliche dell’ex Jugoslavia, un cosiddetto “non-paper”. Un documento non ufficiale, una bozza non firmata, una polpetta avvelenata. Nessuno se ne assume la paternità, ma tutte le strade portano a Lubiana, più precisamente negli uffici del primo ministro sloveno Janez Janša. In questo documento, che l’Europa ha fatto finta di non vedere, la Slovenia propone - per il bene dei Balcani - di cancellare la Bosnia Erzegovina e dividerla in due, lasciando che siano una Grande Croazia e una Grande Serbia a spartirsele.
Non solo. Anche Montenegro e Macedonia del Nord dovrebbero fare la stessa fine, mentre il Kosovo confluirebbe nella Grande Albania. Sempre secondo questo foglio, la formazione di tre macro-Stati favorirebbe le relazioni e lo sviluppo economico, accelerando l’ingresso in Europa dell’Albania e - indirettamente - della Bosnia divisa, via Croazia.
Messaggio di unità sull'ex biblioteca bombardata di Sarajevo (Keystone)
Se quest’idea arrivasse da lontano, qualcuno si sarebbe già alzato per chiedere all’autore di leggersi un po’ di libri di storia contemporanea, o almeno due giornali. Ma arriva dal portone accanto, da un ex Paese della Jugoslavia che quella storia dovrebbe conoscerla bene, facendone parte, e che delle cronache di confine non può ignorare importanza, sviluppi e conseguenze.
Per capire meglio come si è arrivati a questa bomba - per ora inesplosa - lanciata dalla periferia più ricca e integrata con l'Occidente dell’ex Jugoslavia, bisogna tornare alla visita, in marzo, del presidente Borut Pahor a Sarajevo: in quell’occasione chiese ai tre presidenti della Bosnia se ci fosse un modo di dividere il Paese senza spargimento di sangue: quello bosniaco e quello croato risposero di no, ma quello serbo-bosniaco Milorak Dodik non vedeva l’ora di farselo chiedere e ora sta spingendo affinché quest’idea pericolosa possa prendere piede. Talmente pericolosa che il più grande alleato di Dodik, il presidente serbo Aleksandar Vučić, ha già ribadito che Belgrado non ha nessun interesse a vedere la Bosnia andare in pezzi, e che anzi legge quella bozza con cautela e paura conoscendo “il prezzo della pace”.
Il non-paper ha avuto un effetto boomerang sul premier sloveno Janša, accusato di faciloneria e di aver cercato un trucco a effetto per dare risalto ai sei mesi di presidenza slovena al Consiglio dell’Unione europea, che partono a luglio. Lui respinge le accuse e punta il dito contro i rivali politici, interessati - a suo dire - a metterlo in difficoltà in vista delle elezioni del prossimo anno.
In tutto questo, l’Europa, il 15 aprile, ha espressamente dichiarato di “sostenere la sovranità della Bosnia”, senza però citare il documento, anzi ignorandolo del tutto. C’è chi arriva a smentirne l’esistenza, ma qualcuno dice di averlo visto con i proprio occhi: si tratta di Edi Rama, il presidente albanese a un passo dalla rielezione che da ieri si trova un altro non-paper sul tavolo, questa volta i mittenti sarebbero Francia e Germania (che però smentiscono): riguarda l’indipendenza del Kosovo, il Paese che la Serbia non riconosce e il cui fresco vincitore delle elezioni, il nazionalista Albin Kurti, continua a creare grattacapi. Con uno strappo al bon ton diplomatico, infatti, domenica Kurti si è recato in Albania per votare. E che il premier di un Paese - per quanto con una storia fortemente travagliata - vada a votare il presidente di un altro Paese, suona quantomeno strano. La sua mossa ha dato l’inevitabile via libera al presidente serbo Vučić per criticarlo: “Per lui essere a Pristina o a Tirana è uguale, perché secondo lui si tratta di un solo Paese. Pensate se l'avessi fatto io”.
Il leader kosovaro Albin Kurti attorniato da bandiere albanesi (Keystone)
Kurti oggi sarà a Bruxelles, proprio per discutere del futuro del Kosovo, Paese in un limbo inaccettabile per tutti. Il non-paper che lo riguarda proverebbe a forzare la mano con un reciproco riconoscimento tra Belgrado e Pristina e un eventuale scambio di territori per provare pacificare l’area in questo momento più sensibile degli interi Balcani. Stando al non-documento, il presunto piano di accordo includerebbe perlomeno la creazione di un distretto autonomo nel nord del Kosovo, con leggi kosovare ma uno statuto speciale in grado di garantire un ruolo ufficiale alla Chiesa ortodossa e una sorta di autogoverno, a cominciare da Kosovska Mitrovica, la città divisa in due da un ponte, simbolo della separazione traumatica tra Kosovo e Serbia. Belgrado, in cambio di questa autonomia nelle aree a maggioranza serba, si impegnerebbe a non ostacolare l'adesione del Kosovo a organizzazioni internazionali e regionali.
La road map però sembra davvero troppo serrata, con una conclusione del percorso già nel febbraio del prossimo anno, guidata dagli stessi Kurti e Vučić, i due che stanno litigando proprio in questi giorni per via della fuga elettorale in Albania del primo. Sulla data, a cui manca meno di un anno, nemmeno i più ottimisti osano mettere una firma. Infatti il documento non ne ha. La prudenza non è mai troppa negli stessi luoghi in cui l’imprudenza generò, appena trent’anni fa, il conflitto più sanguinoso d’Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale.