Estero

Birmania: protesta nel sangue, almeno 18 manifestanti uccisi

Le forze di sicurezza sono intervenute sparando proiettili veri contro folle pacifiche a Rangoon, Dawei, Mandalay, Myeik, Bago e Pokokku

(Keystone)
28 febbraio 2021
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A un mese dal golpe, in Birmania la repressione armata delle proteste non si ferma. Oggi è stato il giorno più drammatico: almeno 18 manifestanti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza in diverse città del Paese, teatro di proteste che neanche una nuova ondata di arresti e il crescente uso della forza riescono a fermare.

Insensibile alle pressioni internazionali, dopo settimane di graduale inasprimento della sua risposta alle manifestazioni, la giunta militare mostra di non aver esitazioni a uccidere manifestanti pacifici.

Secondo l'Ufficio per i diritti umani dell'Onu, le forze di sicurezza sono intervenute sparando proiettili veri contro folle pacifiche a Rangoon, Dawei, Mandalay, Myeik, Bago e Pokokku. Sui social media girano video di poliziotti anti-sommossa che sparano verso gruppi di manifestanti disarmati, nonché scene di guerriglia urbana con esplosioni e gas lacrimogeni. Con la repressione odierna, sono salite ad almeno 22 le persone uccise dal primo febbraio, quando le forze armate del generale Min Aung Hlaing hanno preso il potere destituendo il governo di Aung San Suu Kyi.

Morti e feriti in varie città, in manifestazioni che durano ormai da oltre tre settimane, confermano che la protesta del 'Movimento di disobbedienza civile' continua imperterrita nonostante almeno 1200 arresti prima di politici, poi di manifestanti e anche di giornalisti. È una protesta fatta innanzitutto da giovani, che si sentono depredati di un futuro dopo un decennio di nascente, seppur imperfetta, democrazia.

Il dissenso corre veloce su Internet, ma i toni irriverenti degli inizi sono ora più disperati man mano che il regime intensifica la repressione. Intere categorie professionali e dipendenti pubblici in ogni settore sono in sciopero, con l'effetto di mettere in ginocchio l'economia. Messi in imbarazzo da una risposta della popolazione che probabilmente non avevano previsto, il timore è che i militari decidano di calare un pugno ancora più duro.

La pressione internazionale non sembra finora avere alcuna influenza su Min Aung Hlaing. Due giorni fa, all'Onu, è stato lo stesso ambasciatore birmano Kyaw Moe Tun a sostenere la causa della protesta, esortando il mondo a utilizzare "ogni mezzo necessario per agire" e alzando persino le tre dita simbolo del dissenso. In risposta, i media statali birmani hanno annunciato oggi che il diplomatico è stato rimosso dall'incarico.

Domani, intanto, è prevista la seconda udienza del processo contro Suu Kyi, accusata di importazione illegale di sei walkie-talkie e di aver violato le disposizioni di sicurezza relative al coronavirus. Accuse farsesche, che potrebbero costare però alla Signora fino a tre anni di reclusione, con conseguente esclusione dalle prossime elezioni - sempre che i militari non si rimangino l'impegno a tenerle tra un anno - e possibile scioglimento della sua Lega nazionale per la democrazia. Suu Kyi è detenuta nella sua residenza nella capitale Naypyidaw, e dal giorno del golpe non è mai apparsa in pubblico. Rinchiusi nel loro bunker sotto gli occhi scandalizzati della popolazione e del mondo, i militari finora non sembrano disposti a retrocedere. I morti di ieri per contro dimostrano che la cruenta strada della dittatura militare è ormai tracciata.

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