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Birmania: il golpe dei militari, le colpe di San Suu Kyi

Arrestato il premio Nobel per la Pace dopo la schiacciante vittoria alle urne di novembre: i generali tornano al potere. Sullo sfondo il massacro dei rohingya

(Keystone)
1 febbraio 2021
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Un colpo di stato. I militari al potere, che non è mai una bella notizia. Un premio Nobel per la Pace in carcere, per l’ennesima volta. Per noi occidentali, cresciuti con film e soldatini di cowboy e indiani, l’equazione è fin troppo facile. I nostri e i loro. Buoni contro cattivi. Non in Myanmar, o Birmania, che dir si voglia. Un Paese dove nulla è come sembra, compresi nomi, capitali e bandiere. Compresa la sua eroina, figlia di un eroe: Aung San Suu Kyi. Per i suoi concittadini, semplicemente, ‘La Signora’.

Per capirci qualcosa di meno, per poi a provare a capirci qualcosa di più, si può partire da Yangon, per molti ancora Rangoon. La città più popolosa, la più vicina a un aeroporto internazionale, quella dove passano chi fa affari oppure le vacanze. Ma non la capitale, non più. Dal 2005 il regime spostò (quasi) tutto in un posto che prima non esisteva, Naypyidaw. L’hanno fondata da zero, costruendo ovunque strade a quattro corsie sempre semivuote. Perché? Per proteggerla dagli uragani, essendo lontana dalla costa, per evitare proteste sotto i palazzi del potere, visto che la gente che fa rumore si trova a Yangon, a 320 chilometri di distanza, per dare retta alla tradizione locali degli indovini, che con le loro predizioni facevano spostare le capitali.


Le strade deserte della nuova capitale Naypyidaw (Keystone)

E poi le bandiere, sette diverse in 80 anni. Cambiate per via di chi veniva a martoriare il popolo birmano da fuori (inglesi e giapponesi) e chi lo faceva direttamente da dentro (i regimi militari). L’ultima bandiera, quella che c’è ancora oggi - con una stella bianca nel mezzo e tre strisce orizzontali: una gialla, una verde e una rossa - è stata introdotta nel 2010, insieme a un nuovo inno e un nuovo nome. Lo decisero i generali al potere dal 1989 quindici giorni prima del ritorno al voto, venti prima della liberazione di San Suu Kyi, che tra galera e domiciliari aveva passato quindici dei ventun anni precedenti in isolamento. Un calvario fatto di torture fisiche e psicologiche.

La Signora veniva sempre associata a Nelson Mandela, anche se in comune i due avevano meno di quel che si potrebbe credere, se non - appunto - la galera e il rappresentare con un volto e un nome la lotta per la democrazia. Lei figlia di un uomo potente, di un padre della nazione ucciso dal rivale politico, laureata in India e poi a Oxford, con una scrivania all’Onu e sposata con un britannico. Lui figlio di un capovillaggio di una provincia povera e sperduta, diventato avvocato, attivista, bombarolo, ricercato, guru, infine presidente del suo Paese. Cosa che lei non è mai riuscita a diventare nemmeno dopo il ritorno alla scena politica e i trionfi elettorali. Il tutto per una regola studiata bene - apposta per lei - dal regime militare: se hai figli con passaporto straniero puoi avere il potere, ma non la massima carica.

Per entrambi si mobilitarono attivisti e politici di mezzo mondo. Per lui cantarono Youssou N’Dour e Little Steven. Per lei Jane Birkin e Damien Rice. Per entrambi gli U2. Icone pop da esibire su una maglietta, come novelli Che Guevara, hanno faticato entrambi a imporsi nel modo sperato. La forza delle idee e del carisma, l’obbligo di farsi megafono e imbuto di mille forze uguali e contrarie che si scontrano con la dura realtà.


Proteste in Thailandia contro l'autore del golpe Min Aung Hlaing (Keystone)

La realtà per Aung San Suu Kyi ha due nomi, uno molto conosciuto, libertà d’espressione, l’altro poco o nulla: Rohingya. Qui inciamperà, ripetutamente, intorbidendo un’immagine limpida costruita in decenni di sofferenza iniziati il 20 luglio 1989, giorno del suo primo arresto.

San Suu Kyi era rientrata in Birmania nel 1988, dopo 28 anni all’estero, per accudire la madre malata. In quello stesso periodo, Ne Win, dittatore e autore del golpe del 1962, si fece da parte. L’8-8-88 la gente scese in piazza chiedendo a gran voce la democrazia. Quella data piena di 8 era considerata di buon auspicio e San Suu Kyi fece la sua parte, prima radunando mezzo milione di persone in piazza, poi annunciando la nascita di un suo partito chiamato Lega Nazionale per la Democrazia in cui confluivano intellettuali e studenti. Ma, nel frattempo, un’altra giunta militare prende il potere. Meno di un anno dopo la Signora è dietro le sbarre. In quel momento non poteva sapere che la solitudine sarebbe stata - a fasi alterne - la sua compagna per 21 anni. Assieme a torture fisiche e psicologiche. Nel 1991 le viene assegnato il Nobel che non potrà andare a ritirare. Ma una prova ancora più dura è datata 1999. Al marito malato, che vive in Inghilterra, vengono dati pochi mesi di vita. Il regime gli rifiuta il permesso di poter visitare la moglie ai domiciliari. In compenso a lei viene concessa la possibilità di raggiungerlo. Sapendo che al ritorno nessuno l’avrebbe fatta rientrare in Birmania, sceglie a malincuore di non vedere mai più il marito.

 

Nel 2002 torna in semilibertà in seguito a forti pressioni dell’Onu, ma non c’è modo - per lei - di stare tranquilla. Il 30 maggio 2003 sfugge a un attentato in cui vengono massacrati diversi suoi sostenitori (un cosa simile accadde già nel 1996). Di nuovo ai domiciliari viene prima condannata ai lavori forzati, infine liberata - nel 2010 - sei giorni dopo le elezioni. Una mossa studiata per evitare di averla in Parlamento, dove entrerà comunque nel 2012 tramite elezioni suppletive. Da lì diventa capo dell’opposizione, trampolino perfetto per vincere le elezioni nel 2015. Un successo netto ma mai pieno, perché la democrazia birmana non sarà mai veramente tale, restando ostaggio dei militari che mantengono un quarto dei seggi, abbastanza da controllare ed evitare modifiche alla Costituzione pensata e scritta da loro.

San Suu Kyi non ha le mani completamente libere, ma fa ben poco per muoverle almeno per quanto le è permesso. Sotto la sua guida il processo di democratizzazione si ferma. Anzi, alcuni indicatori di primaria importanza vedono la Birmania arretrare: viene ulteriormente limitata la libertà di stampa, i giornalisti scomodi sono arrestati, aumentano i prigionieri politici e la censura su internet. Le leggi dei militari sono difficili da toccare, ma San Suu Kyi nemmeno ci prova.

In questo quadro s’inserisce la persecuzione dei rohingya, minoranza etnica di fede islamica (in un Paese a maggioranza buddista) che vive nell’ovest del Paese, vicino al Bangladesh e non ha diritto di cittadinanza. I primi scontri armati del 2017 diventano nel giro di poco tempo una violazione sistematica dei diritti umani, con violenze, stupri e migrazioni di massa che fanno gridare l’Onu diverse Ong al genocidio.


La fuga della minoranza rohingya al confine con il Bangladesh (Keystone)

San Suu Kyi difende oltremisura i soprusi dei militari. Le colombe vedono la sua debolezza in un atto di realpolitik in salsa asiatica: una lenta democratizzazione in cambio di tutti e due gli occhi chiusi davanti alle violenze di Stato. Ma in Occidente inizia a essere criticata, le vengono ritirati premi importanti come il Sakharov, infine si ritrova a mentire davanti alla Corte dell’Aja, definendo fuorvianti le voci sui rohingya. Provò a declassare tutto a un generico “conflitto armato interno” nascondendo l’orrore, lei che l’orrore l’ha vissuto a lungo in prima persona. Imperdonabile.

Certo, il golpe non è un atto di generosità dei militari verso il popolo, tantomeno di apertura verso la democrazia. Non lo è mai. Pare che ci sia la paura di perdere ulteriormente potere dopo i risultati delle ultime elezioni del novembre scorso, una vittoria a valanga del partito di San Suu Kyi. A questo va aggiunta l’ambizione del generale Min Aung Hlaing che - prossimo alla pensione - vorrebbe regalarsi un ultimo giro di notorietà e potere.

Chissà quanto dura, questa volta, la bandiera.

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