Estero

La giornata mondiale dei diritti umani e la pandemia

Il 2020 è stato un anno intenso anche per chi lotta contro abusi e disuguaglianze. Intervista con la direttrice di Amnesty International

Alexandra Karle (Amnesty International)
10 dicembre 2020
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Era proprio oggi, ma nel 1948: quel 10 dicembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Un tema del quale in Svizzera si è tornato a parlare parecchio prima del voto sull’iniziativa per multinazionali responsabili, ma che in precedenza era stato mandato in soffitta dall’emergenza coronavirus. Ne discutiamo con Alexandra Karle, che dal primo giugno è direttrice generale di Amnesty Svizzera. Una veterana: da quasi un decennio era già portavoce dell’ong per la Svizzera tedesca, dopo una quindicina d’anni trascorsi come giornalista a raccontare guerre e crisi umanitarie.

Karle, quest’anno il Covid-19 ha monopolizzato le nostre attenzioni. Ci siamo dimenticati dei diritti umani?

In verità, credo che questa crisi ci aiuti a comprendere ancora di più l’importanza di certi diritti e a darli meno per scontati, a partire naturalmente dal diritto alla salute. Anche le restrizioni rese necessarie dalla pandemia ci hanno fatto apprezzare meglio quelle libertà e quelle ‘fortune’ che consideriamo acquisite, come la libertà di movimento. Più in generale, si è visto un moto di solidarietà collettiva che ha spinto le nostre comunità all’aiuto reciproco.

Il virus, però, non è uguale per tutti.

Certamente si è anche dovuto notare come queste emergenze colpiscano in modo sproporzionato le fasce sociali e i paesi più deboli: chi vive ammassato in condizioni igieniche precarie, chi non può contare sull’aiuto dello Stato e col blocco dell’economia non può sfamare la famiglia, chi per ragioni razziali o di genere è più esposto alle conseguenze anche economiche della pandemia.

Un problema che ha investito in pieno anche i migranti nei centri d’accoglienza.

Lo si è visto bene in Grecia, con gli incendi in enormi tendopoli come quella sull’isola di Lesbo. Il risultato di una disperazione che montava da tempo, e che l’emergenza ha esacerbato ulteriormente. Ci ricorda che dobbiamo trovare una soluzione, perché non si può pretendere che migliaia di persone vivano praticamente affastellate l’una sull’altra per cinque, sei anni. Per questo continuiamo a chiedere la revisione dell’obsoleto Accordo di Dublino, in modo da rendere la distribuzione dei rifugiati più equa e sostenibile. Ma sosteniamo anche azioni urgenti per far fronte alla crisi: è stata incredibile la reazione della società svizzera, con ben otto città disponibili ad accogliere più migranti. A frenare molto è una politica che preferisce rinviare tutto alle decisioni europee. Ma non possiamo ignorare questo orrore.

Ma almeno la pandemia è servita a ‘congelare’ certi abusi nei Paesi più autoritari?

Al contrario. Alcune nazioni – ad esempio il Venezuela, il Myanmar, l’Egitto – hanno utilizzato l’emergenza per reprimere ancora di più il dissenso, per perseguitare giornalisti, attivisti e persone comuni. Anche in Europa abbiamo visto come alcuni governi – penso a quello ungherese – abbiano approfittato della situazione per imbavagliare il dissenso e bypassare pressoché completamente il potere legislativo.

Autoritario è anche il regime cinese, che però con la sua ‘società del controllo’ si direbbe oggi tra i migliori nel controllare la diffusione del virus.

Certo, il mancato rispetto dei diritti e delle libertà individuali permette d’intervenire in modo anche molto efficace sul problema dei contagi. Ma la reclusione e la repressione del dissenso non sono risposte accettabili all’emergenza sanitaria. In Cina come altrove, chi per primo ha denunciato problemi nella gestione del virus è stato oggetto di aggressioni e vessazioni (un caso noto è quello di Li Wenliang, l’oftalmologo di Wuhan che a dicembre dell’anno scorso aveva attirato l’attenzione dei colleghi sul nuovo virus, era stato accusato di “disseminare dicerie” e ufficialmente richiamato dalle autorità. È morto di Covid a febbraio, ndr).

L’esasperazione però – e non solo quella dovuta al coronavirus – ha visto nascere e consolidarsi mobilitazioni importanti.

Sicuramente è esemplare il caso bielorusso, che ormai da maggio vede decine di migliaia di persone in piazza contro il regime di Alexander Lukashenko. Un movimento continuato nonostante la dura repressione e le torture per mano della polizia. Altri esempi riguardano i diritti delle donne, con le manifestazioni in difesa del diritto all’aborto in Argentina e in Polonia. E poi c’è Black Lives Matter, che alle rivendicazioni degli afroamericani unisce una grande dimostrazione di solidarietà a livello internazionale.

Una pandemia che ha colpito soprattutto le minoranze, milioni di posti di lavoro bruciati in poche settimane, un presidente incendiario come Donald Trump: la tempesta perfetta.

Sicuramente si tratta di una mobilitazione di dimensioni storiche. Che però non rivela solo gli eccessi dell’amministrazione uscente, ma problemi di discriminazione che proseguono da lunghissimo tempo e che Amnesty denunciava già da ben prima che arrivasse Trump. Naturalmente, speriamo che con Joe Biden l’approccio alle manifestazioni si faccia meno repressivo e più orientato al dialogo, così come ci auguriamo che l’America riprenda il suo impegno negli organismi internazionali per i diritti umani.

Torniamo in Svizzera: la bocciatura dell’iniziativa per multinazionali responsabili da parte della maggioranza dei cantoni è stata una bella mazzata.

Di certo non posso dire di essere pienamente soddisfatta. Avremmo potuto scrivere la storia. Però ricordiamoci che il 50,7% della popolazione è a favore dell’iniziativa, e tra l’altro il risultato in Ticino è stato davvero eccezionale. Questo significa che il lavoro fatto da così tante organizzazioni ed esponenti della società civile negli ultimi anni non è andato sprecato, che davvero il vento sta girando, e di questo bisognerà tenere conto. Anche perché nei prossimi anni tutta l’Europa andrà in quella direzione: è un treno che non si può fermare. Ora dobbiamo impegnarci per fare in modo che il controprogetto porti almeno a una due diligence seria, e non ai soliti rapporti patinati che spesso sembrano una brochure pubblicitaria, più che una relazione attendibile sulla propria condotta. Continueremo anche a vigilare sugli abusi commessi all’estero da alcune multinazionali svizzere.

Guardiamo avanti, dunque: quali sono le priorità per il 2021?

Intanto, naturalmente, è fondamentale garantire a tutti l’accesso al vaccino contro il coronavirus. E qui sarà cruciale la mobilitazione a tutti i livelli della società. Già in fase di sviluppo e preordine dei vaccini si è vista l’importanza di alleanze e istituzioni internazionali per permettere l’accesso alle dosi anche ai Paesi più poveri. Oltre all’impegno degli Stati e delle stesse case farmaceutiche, sarà decisivo quello delle Ong e dei loro sostenitori per far fronte alle sfide logistiche della vaccinazione di massa dove le strutture sanitarie sono più fragili. Tra l’altro, nel frattempo occorrerà recuperare il tempo che la pandemia ha fatto perdere anche ad altre fondamentali campagne di vaccinazione globale, come quella contro la poliomielite.

Non si vive di solo vaccino, però.

Tutt’altro. Sarà fondamentale tenere d’occhio soprattutto le situazioni internazionali nelle quali stiamo assistendo a un deterioramento ulteriore: ad esempio a Hong Kong e in Egitto, con centinaia di arresti, violenze, perfino omicidi ai danni degli attivisti per la libertà e i diritti umani. Resta l’impegno per la libertà politica, la difesa delle minoranze e il rispetto della Dichiarazione del 1948 in ogni angolo del mondo. Un rispetto che chiama in causa anche la Svizzera, che deve prendere posizione contro le violazioni: è il centro delle organizzazioni multilaterali che cercano di combatterle, non può confondere la neutralità con il silenzio.

A proposito di Svizzera, qual è l’agenda 2021 a livello nazionale?

Il 2021 dovrà essere anche l’anno dei diritti delle donne, in particolare attraverso la riforma del nostro codice penale. Nello specifico occorre rivedere gli articoli riguardanti la coazione sessuale e la violenza carnale, in modo che sia possibile sanzionare ogni atto sessuale non consensuale, che si possa davvero riconoscere che “un no è un no”. Un passo necessario dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne.

E poi?

Poi c’è la creazione di un’istituzione nazionale per la tutela dei diritti umani. Ci lavoriamo da oltre vent’anni, e dopo il progetto pilota del Centro di competenza è giunto il momento di fare un salto di qualità: creare un’organizzazione pubblica indipendente capace di vagliare tutti gli aspetti dei diritti umani nella legislazione e nella società svizzera. Proprio la pandemia ci ha fatto vedere con ancor più chiarezza quanto la loro tutela sia fondamentale per la vita, la convivenza e il benessere di tutti.

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