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Le parole di Trump, le fatiche di Biden e i problemi del Midwest

Proviamo a mettere la trincea di questo turno elettorale in un contesto storico, con l'aiuto di un fine conoscitore del passato americano

(Keystone)
5 novembre 2020
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Siccome rincorrere la cronaca di queste ore toglie il respiro, a John Lamberton Harper – pluridecorato studioso di storia americana e docente alla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University – chiediamo aiuto per mettere gli eventi di questi giorni in prospettiva.

Professor Harper, Trump ha proclamato vittoria prima del tempo, accusato i Democratici di brogli inesistenti, minacciato di ricorrere alla Corte Suprema. Le vengono in mente episodi simili nel passato degli Stati Uniti?

No, sinceramente mi pare qualcosa senza precedenti. Non mi stupisce, perché lo aveva preannunciato. Ma mentre ci sono stati in passato episodi di elezioni molto combattute – l’ultima nel 2000, con Bush Jr. e Al Gore – non ricordo alcun presidente scegliere un approccio del genere. A prescindere dal risultato, è probabile che le sue parole e il suo comportamento indeboliscano la credibilità istituzionale, esacerbando i conflitti interni alla società americana.

In che senso?

Il presidente si pone in una posizione di rifiuto, la stessa dell’elettorato che rappresenta e che quindi riesce a mobilitare: una coalizione di gruppi che si sentono minoritari, o minacciati, o sulla difensiva, che vedono in Trump una sorta di guardia del corpo. Ma intanto una parte maggioritaria del paese, diversa dal punto di vista etnico, sociale e culturale, si trova costantemente sfidata.  

Cosa succede quando il sistema politico non riesce più ad accomodare e conciliare i conflitti sociali?

Evocare lo spettro della guerra civile sarebbe senz’altro esagerato, ma gli scontri di quest’ultimo periodo fanno capire che le tensioni sono alte, la situazione pericolosa tanto a livello sociale quanto a livello istituzionale. 

Parlava di minoranze minacciate: un bell’esempio viene dal Midwest, dove Biden sta cercando a fatica di riconquistare quell'elettorato bianco operaio che un tempo invece si sarebbe dato per scontato, dato che costituiva il baricentro del partito democratico.

Il distanziamento da quella base è iniziato negli anni Novanta, con la ‘Terza via’ moderata di Clinton che si è affrancato dalla componente più sindacale, assecondando senza grandi contrappesi la globalizzazione e l’apertura commerciale (l’accordo di libero commercio nordamericano Nafta, l’inclusione economica della Cina). Il risultato è che solo tra il 2001 e il 2010 si è perso circa un terzo dei posti di lavoro nel settore manifatturiero. Per questo ad alcuni Trump è sembrato un salvatore.

Trump poi ha riversato le stesse ‘colpe’ su Obama. Ma davvero i Democratici potevano rimanere fedeli alle vecchie formule? Di fronte a cambiamenti strutturali di natura globale, così facendo non avrebbe rischiato di condannarsi a una prematura obsolescenza?

Naturalmente c’entra anche il cambiamento strutturale e tecnologico, ma col senno di poi si sarebbe potuta gestire la globalizzazione con più prudenza. A una sua versione senza freni, alcuni uomini di Trump propongono alternative sensate. Penso a Robert Lighthizer, il Rappresentante per il commercio che ha guidato i negoziati con la Cina: un tempo, il suo modo di affrontare problemi reali sarebbe stato benvenuto anche nel partito democratico.

Al di là dell’economia c’entra anche il razzismo: l’America contesa nella trincea del Midwest è quella che non accetta una società multietnica.

Però non bisogna fare l’errore di separare le due cose. D’accordo, Trump sfrutta in modo spregiudicato il fattore razziale, come si è visto con le critiche alla legittimità della presidenza Obama e con l’atteggiamento accomodante vero i suprematisti bianchi. Ma non ci riuscirebbe mai se molti dei suoi elettori non si trovassero in uno stato d’insicurezza anzitutto economica: se hai un buon lavoro e stai bene, non hai bisogno di un capro espiatorio. Anche per questo, e senza voler in alcun modo minimizzare l’atteggiamento di Trump, quello che stiamo vedendo è il frutto di tensioni molto più profonde e durature. Difficile essere ottimisti.

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