STATI UNITI

Kamala Harris, Joe Biden e la società dei trattini

È la prima donna non bianca candidata alla vicepresidenza. Ma non è una scommessa folle. Intervista a Francesco Costa

(Keystone)
15 agosto 2020
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La scelta di Joe Biden per la candidatura alla vicepresidenza non ha sconvolto i pronostici: l’ha spuntata Kamala Harris, attuale senatrice per la California. L’ex procuratrice è considerata da molti osservatori la scommessa più prudente, dato che si tratta di un personaggio ‘rodato’ sui media, con una solida carriera che l’ha vista profilarsi come persona coraggiosa e determinata. Il carisma di Harris non passa inosservato, specie se lo si confronta con la figura decisamente anodina di Joe Biden: per questo la sua presenza acquisisce immediata centralità in vista delle elezioni di novembre. Ne parliamo con Francesco Costa, vicedirettore del Post, autore del recente saggio ‘Questa è l’America’ e titolare del podcast ‘Da Costa a Costa’, dedicato proprio a quello che succede negli Usa.

Costa, Kamala Harris è solo la terza donna candidata alla vicepresidenza: a precederla furono la repubblicana Sarah Palin per John McCain nel 2008 e la democratica Geraldine Ferraro per Walter Mondale nel 1984, e in entrambi i casi finì malissimo. Soprattutto, Harris è la prima non bianca. Caratteristiche che fino a pochi anni fa avrebbero fatto percepire la scelta come coraggiosa, addirittura avventata. Oggi invece si parla di scelta prudente. Cos’è cambiato?

Anzitutto la composizione demografica degli Stati Uniti: la popolazione americana diventa ogni giorno meno bianca, soprattutto nel Sud. In molte città americane le minoranze etniche, messe insieme, non sono più minoranza; lo stesso vale per la popolazione sotto ai diciott’anni. Questo conta ancor più per la base del partito Democratico, che ha il sostegno della stragrande maggioranza delle persone non bianche. Le proteste degli ultimi mesi poi hanno aumentato ulteriormente la pressione su Biden affinché scegliesse qualcuno di complementare alla sua immagine di anziano maschio bianco, erede di cinquant’anni di storia politica molto più tradizionale. Per lui sarebbe stato molto più rischioso scegliere una vicepresidente bianca, anche se donna.

Va specificato che Harris non è propriamente afroamericana, bensì di padre giamaicano e madre tamil. Questioni di lana caprina?

Le questioni etniche in America non sono mai di lana caprina, ma esistono sempre pochi assoluti e molte sfumature: il padre di Harris, in quanto giamaicano, viene comunque da una storia di deportazione e schiavitù analoga a quella vissuta dai neri degli Stati Uniti. Ma è vero che nel corso della sua carriera Harris è stata accusata a più riprese di volersi appropriare di un’identità non sua. Il problema però sarà piuttosto il suo passato di procuratrice, molto progressista, ma non sempre particolarmente critica nei confronti delle discriminazioni commesse dalla polizia. Per questo molti attivisti afroamericani l’accusano di aver fatto troppo poco.

È significativo anche il fattore età: Biden ha 77 anni, Harris 55. Importante per la campagna, ma anche perché se Biden fosse eletto, non è detto che a 81 anni potrà o vorrà sollecitare un secondo mandato.

Un altro dei motivi per i quali Harris appare come la scelta più logica: è una persona esperta, ma relativamente giovane. Una battuta macabra ricorda che il vicepresidente sta “a un battito di cuore” dalla presidenza. E dato che ci troveremmo con il presidente più anziano della storia al momento dell’insediamento la scelta di Harris è ancora più importante, perché la posiziona già come successore naturale.

Va detto però che raramente i vicepresidenti portano voti decisivi. E alle primarie Harris non fece una gran figura; in certi dibattiti riuscì a mettere in difficoltà lo stesso Biden, ma la sua campagna si rivelò piuttosto raffazzonata: messaggi poco chiari, scarsa preparazione su temi cruciali quali la sanità, toni aggressivi.

In effetti la sua campagna fu un mezzo disastro, sia sul piano organizzativo che su quello programmatico: sulla sanità ha difeso la proposta di copertura universale di Bernie Sanders, poi ha proposto qualcosa di simile ma diverso, e alla fine è sembrata indecisa. I suoi detrattori sostengono che sia troppo opportunista, troppo preoccupata di stare dalla parte della maggioranza per far capire agli elettori ciò in cui crede. L’idea che pensi sempre anzitutto al suo prossimo incarico si fa largo ancora di più adesso: si dice che il comitato di Biden abbia tentennato un po’ prima di sceglierla, proprio per il timore che una volta alla Casa Bianca si metta a lavorare più alla sua successione che alle priorità del presidente. Col rischio di critiche e spaccature.

Tra l’altro, con l’eccezione di personaggi come Lyndon Johnson e Dick Cheney, di solito i vicepresidenti sono figure di secondo piano. Quando Obama scelse lo stesso Biden, molti vi lessero la volontà di ridimensionare la carica dopo gli anni del ‘Richelieu’ di Bush. Con Harris si torna invece al vicepresidente forte?

Biden tentennò molto prima di accettare l’offerta di Obama proprio perché non voleva passare dall’essere uno degli uomini più potenti del Congresso alla figura che si limita a tagliare nastri ed essere protagonista delle barzellette. In seguito Obama lo ascoltò comunque molto, ma riservandosi sempre l’ultima parola e andando spesso in direzioni diverse, come col raid su Bin Laden e il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Ora però è ancora presto per fare previsioni, perché il rapporto tra Biden e Harris è ancora tutto da costruire: lei lo aveva attaccato parecchio durante le primarie, anche con colpi sotto la cintura, pur essendo molto amica del defunto figlio Beau, cosa che certamente deve aver contato qualcosa. Ma volente o nolente Biden dovrà concentrarsi sull’epidemia e l’economia, e poi c’è la questione dell’età: gli serve un partner cui delegare altri compiti importanti quali la politica estera (nella quale d’altronde Harris è poco ferrata). Per calcolare il peso di Harris in caso di elezione, si tratterà di capire se tra i due prevarrà la fiducia o il rispettoso scetticismo.

Per cosa la vedremo impegnarsi di più?

Sicuramente per la riforma della giustizia penale, anche dato il suo curriculum di procuratrice, ma soprattutto per il momento storico che mette al centro della discussione il razzismo sistemico e le violenze della polizia. Si tratta di cambiare un sistema che dagli anni Novanta ha condannato al carcere a vita o comunque a detenzioni lunghissime un numero spropositato di persone, anche per reati non violenti: gli Usa sono il paese con la popolazione carceraria più ampia al mondo, e la detenzione colpisce in modo sproporzionato gli afroamericani.

L’impressione è che con Harris il partito si sposti a sinistra, anche se magari non come sarebbe stato nel caso di altri candidati come Elizabeth Warren.

Mentre Hillary Clinton aveva scelto un candidato moderato come Tim Kaine, Biden, partendo da una posizione analoga, ha scelto di non rafforzare la sua stessa identità, ma di prendere piuttosto una liberal californiana, anche piuttosto aggressiva, come si è visto in numerosi audit parlamentari. Una figura più complementare che gregaria, che lascia intuire come contro Trump si voglia vincere con decisione, senza troppi compromessi.

Finora però Biden ha seguito la ‘strategia dell’opossum’, quella di fingersi ‘morto’ per lasciare che sia il suo avversario a farsi del male da solo, e così facendo ridurre l’elezione a un referendum su Trump. Ora si passa all’attacco?

In parte la strategia cambia, ma non bisogna esagerare: sarebbero risultati più provocatori altri profili come quello di Karen Bass, accusata di essere comunista per aver partecipato a manifestazioni in difesa della Cuba di Castro, o di Elizabeth Warren. La scelta di Susan Rice avrebbe invece riaperto il dibattito sulla controversa politica estera di Barack Obama, del quale fu Consigliere per la sicurezza nazionale. Se poi Biden avesse optato per il governatore di uno stato, avrebbe rischiato un danno serio nel caso in cui da quelle parti si dovesse registrare un nuovo picco dell’epidemia da coronavirus. Paradossalmente, Harris è la scelta più ‘noiosa’ che Biden potesse fare.

D’altro canto, anche per via del suo carisma, i Repubblicani non esiteranno a farne un San Sebastiano per le loro frecce. I tweet di Trump parlano già di un’estremista che imporrà miliardi di nuove tasse, il comitato elettorale repubblicano l’accusa – falsamente – di voler abolire l’assicurazione sanitaria privata, di aver paragonato la polizia al Ku Klux Klan.

Possiamo sicuramente aspettarci una forte campagna per dipingerla come il male assoluto, anche perché finora gli attacchi contro Biden – accusato allo stesso tempo di essere senile ed estremista – non hanno funzionato. Ora si presenta una nuova occasione, tanto più che parliamo di una donna non bianca: un profilo associato per decenni ai mestieri più umili e subalterni ai bianchi, come le cameriere e le babysitter.

Viene anche da pensare che una democratica della California rappresenti un mondo molto diverso da quello degli stati e degli elettori ‘in bilico’, storicamente lontani dalle grandi metropoli progressiste. D’altra parte, riuscire a ottenere la nomination democratica per il Senato richiede una bella fibra, in uno stato che conta 40 milioni di abitanti e da solo ospita la quinta economia mondiale, dietro la Germania e davanti all’India.

La scelta di Harris riflette la tendenza a rispondere ad esigenze identitarie più che geografiche. Ma lo scetticismo circa il suo profilo c’è anche nel partito Democratico, che avendo le sue radici storiche lungo la costa atlantica ha sempre considerato i candidati californiani come interessanti, ma poco spendibili sul piano nazionale. Un’altra californiana come Nancy Pelosi è leader del partito alla Camera, ma è molto impopolare quasi dappertutto. La candidatura di Harris rappresenta anche il tentativo di superare questo presunto pregiudizio, recuperando la California a una classe dirigente accolta anche dal resto del paese, come non succede più dai tempi di Ronald Reagan.

Un’ultima riflessione: non trova un po’ triste che la politica americana si riduca così spesso a questioni d'identità, invece di impegnarsi in un confronto ‘senza colore’ sui programmi? Lo storico Tony Judt – inglese di nascita e americano d'adozione, di famiglia ebraica, tutt'altro che conservatore – vedeva con preoccupazione l’affermarsi di una “hyphenated society”, una “società col trattino” nella quale “siamo tutti irlandesi-americani, nativi-americani, afro-americani”. Una comunità fratturata, insomma, vittima di "solipsismo" e "borioso vittimismo".

È indubbiamente triste, per tutte le sue implicazioni. Da una parte negli Stati Uniti l’identità etnica delle persone è ancora il fattore che permette meglio di prevedere il reddito, il livello di istruzione e le condizioni di vita di ciascuno, e quindi in qualche modo è un destino: chi sostiene che bisognerebbe guardare alla società senza il filtro dell’etnia finisce per rimuovere la realtà. Dall’altra parte, la sacrosanta richiesta di diritti, spazio e voce per le minoranze etniche, unita a un'orgogliosa riscoperta delle proprie radici culturali, si sta accompagnando spesso a un irrigidimento, a un rifiuto della contaminazione, a un tentativo di divisione della società in compartimenti sempre più separati invece che in una graduale mescolanza. Il “melting pot” oggi è visto davvero come un ingenuo concetto degli anni Novanta. Si pensi per esempio alla leggerezza con cui si viene accusati di “appropriazione culturale”, o al tentativo di produrre acronimi sempre più lunghi e trattini sempre più ubiqui sulla base dell’idea che l’unica società inclusiva sia quella che cataloga tutto il catalogabile: e quindi separa tutto il separabile, e guai se qualcuno anche in buona fede si appropria dell’acronimo sbagliato. In questo senso, però, mi sembra che l’ascesa di Kamala Harris possa anche mettere in discussione alcuni di questi assunti. Madre asiatica, padre giamaicano, cultura ed esperienza di vita afroamericana in uno dei posti più bianchi degli Stati Uniti, ma frequentando le scuole per neri, i templi induisti e le chiese battiste. Non esisteranno mai abbastanza parole, trattini e acronimi per coprire la varietà di sfumature che possono avere le identità delle persone.

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