Estero

Pechino, stato di polizia e lavaggio del cervello uiguro

La minoranza musulmana è perseguitata, nei campi di rieducazione fino a un milione e mezzo di persone. Se ne parlerà martedì con Amnesty

9 febbraio 2020
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“Non si può costruire senza prima distruggere”, disse una volta Mao Zedong. I suoi emuli – primo fra tutti l’accentratore Xi Jinping – paiono seguirlo alla lettera quando si tratta di confrontarsi con le minoranze linguistiche e religiose. Come quella degli Uiguri nello Xinjiang, a nordovest del Paese: 11 milioni di persone sottoposte a un ampio programma di sorveglianza e rieducazione culturale, con tanto di campi di concentramento per riportare sulla ‘retta via’ i presunti soggetti radicalizzati: un milione, un milione e mezzo di persone vi sarebbe recluso. Il governo cinese dice che sono integralisti islamici, gli osservatori occidentali denunciano il tentativo di sradicare un’etnia e la sua cultura attraverso l’assimilazione forzata.
Ne parliamo con Gabriele Battaglia, collaboratore di Rsi, Radio Popolare e Internazionale, che da nove anni vive e lavora in Cina. Di questo tema tratterà anche martedì al primo Amnesty Apéro della stagione, la quinta degli incontri organizzati dall’Ong internazionale a Lugano. L’appuntamento è come di consueto allo Spazio 1929, in via Ciseri 3. Si comincia alle 19, modererà l’incontro il giornalista Rsi Nicola Lüönd.

Battaglia, quello che il governo cinese sta facendo agli Uiguri si può definire pulizia etnica? Genocidio?

Intanto va precisata una cosa: qui si parla di genocidio culturale, non fisico. Non si sta facendo quello che fu fatto agli ebrei o agli armeni. Ciò non toglie che nei campi di ‘rieducazione’ agli Uiguri venga fatto il lavaggio del cervello, per cancellare i segni della loro appartenenza religiosa e culturale.

Cosa gli capita?

Stando alla versione ufficiale, si tratta di centri nei quali gli Uiguri possono imparare un mestiere e seguire corsi di lingua e cultura ‘ufficiale’, allontanandosi così dalla radicalizzazione islamica. Le molte testimonianze parlano invece di una reclusione della durata di almeno sei mesi, durante la quale si possono subire arbitri e violenze, anche sessuali, e nella quale ci si ritrova anche solo perché si prega cinque volte al giorno e fuori dalle moschee ufficialmente riconosciute. Può bastare la soffiata d’un vicino, e ho conosciuto personalmente familiari di reclusi scomparsi nel nulla per mesi, dato che peraltro è anche difficile conoscere numero e collocazione dei campi.

Un mestiere, però, lo imparano.

Sì, vengono addestrati ai lavori più umili. Così potranno poi confluire nella grande massa di operai a basso costo che può essere sfruttata per continuare a far crescere l’economia. In questo modo, si perpetua anche la grande divisione sociale che vede gli Han in posizione di classe dirigente e mercantile dello Xinjiang, mentre gli Uiguri restano subordinati.
Ma la radicalizzazione islamica degli 

Uiguri c’è stata davvero?

In parte, è innegabile che la società uigura sia diventata sensibilmente più religiosa: ho conoscenti uiguri che abitano in Europa e mi raccontano di come anche le loro famiglie stiano diventando sempre più conservatrici. In questo contesto ci sono anche casi di infiltrazione islamica. E siccome nell’ottica di Pechino la radicalizzazione è figlia dell’ignoranza, la soluzione è nella rieducazione.

L’islamizzazione è causa o conseguenza della repressione?

È il dilemma dell’uovo e della gallina. Direi che una situazione di grande difficoltà sociale ed economica potrebbe anzitutto avere creato la necessità di trovare rifugio, consolazione nella dimensione religiosa. In seguito, la repressione e la realizzazione di uno stato di polizia – check point con vere e proprie caserme mobili, riconoscimento facciale, sistemi di sorveglianza basati sull’intelligenza artificiale, una polizia sempre presente – può avere spinto a riaffermare ulteriormente la propria identità, per una forma di ulteriore autodifesa.

Quando è iniziata la repressione?

La fase più dura è cominciata con gli attentati dei primi anni Dieci, a bassa intensità rispetto a quelli vissuti in Europa e America, ma che hanno comunque colpito l’opinione pubblica; nel 2013 una famiglia uigura si è lanciata con l’auto sui pedoni in piazza Tienanmen, poi si sono susseguiti attacchi esplosivi e all’arma bianca in Yunnan e nella capitale dello Xinjiang Urumqi. Dopo decine di morti, il governo ha iniziato la lotta contro i ‘tre mali’: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. E si è affidato a Chen Quanguo, divenuto segretario locale del Partito comunista dopo avere messo il bavaglio alle proteste in Tibet.

La storia, però, va avanti da un pezzo.

È dal dopoguerra che Pechino persegue una politica al contempo di sviluppo e assimilazione. Anche la lingua uigura (di ceppo turco, ndr) è sempre più marginalizzata. Negli ultimi decenni è aumentata l’immigrazione di cinesi Han, che hanno occupato posizioni più ‘alte’ rispetto agli Uiguri, rimasti umili contadini. I contrasti quindi sono andati crescendo, anzitutto proprio per questo divario sociale. È da lì che vengono anche gli atti terroristici e la radicalizzazione. Paradossalmente, ora è l’apparato di polizia e controllo che viene usato come leva sociale: la prima linea poliziesca è costituita proprio da uiguri, che in cambio della promozione sociale e della sicurezza si comportano in maniera durissima.

Questa si direbbe un’ironia della storia: dopo tutto era Mao a dire che il popolo è l’acqua e l’esercito il pesce che vi nuota. Si può sperare in un miglioramento?

Storicamente, con le minoranze la Cina ha sempre seguito fasi alterne: ‘bastoni’ e ‘carote’. È possibile che dopo la repressione arrivino investimenti e un tentativo di coinvolgere anche gli Uiguri nello sviluppo economico del paese. Alcuni colleghi mi hanno detto che ultimamente la situazione si starebbe relativamente rilassando, può darsi che il governo cinese

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