Estero

Shoah, può succedere ancora

Bruno Segre: smitizzare la Shoa per impedire le manipolazioni della memoria

27 gennaio 2020
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Nel giorno del ricordo dello sterminio nazista, che coincide con la data di liberazione del campo di Auschwitz, un ‘vecchio ebreo’ riflette sulle difficoltà e la necessità di storicizzare quella catastrofe, per togliere argomenti ai negazionisti e opporsi al ritorno delle ideologie che l’originarono.

Quanto alla Shoah, bisognerà ritornare sull’interpretazione della celebre affermazione di Primo Levi, "È accaduto, quindi può accadere di nuovo...", perché troppo riduttiva o fuorviante è quella che vorrebbe il monito di Levi rivolto a un luogo preciso e a un tempo della nostra storia. Può accadere ovunque, in qualsiasi momento e ad opera di chiunque. Non possiamo ritenerci assolti, né immuni.

Bruno Segre apre così il suo ragionamento sofferto e lucido sulla Shoah e il modo in cui ne facciamo memoria. Da “vecchio ebreo”, come si definisce questo novantenne esemplare, ma anche da storico e uomo di pace (è stato sostenitore in Italia di Neve Shalom la sola esperienza di convivenza israelopalestinese in terra d’Israele) è tornato con noi a ragionare sulla Shoah: non tanto sul residuo di inspiegabilità di un evento pur studiato e interpretato come pochi altri nella Storia, quanto sul significato che ha assunto l’edificio memoriale che vi è cresciuto sopra. Parole di rara onestà intellettuale, rese ancor più vere dalla testimonianza di una vita, giacché quelle “scolpite nella pietra, che noi siamo soliti considerare definitive, sono invece le più manipolabili”.

La memoria, allora. In un articolo apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz il 2 maggio scorso e ispirato dalle riflessioni di Yehuda Elkana, sopravvissuto ad Auschwitz, Gideon Levy affermava la necessità, per Israele, di dimenticare. Di rimettere il passato al suo posto. Riconoscendo, soprattutto, che “la memoria dell’Olocausto è stata la sorgente di un’ansia esistenziale, che ha condotto all’odio degli arabi”, all’esaltazione della forza militare dello stato. Temi che lo scrittore Yishai Sarid ha sviluppato nel romanzo ’Il mostro della memoria’ (ed. E/O). Agli occhi dei ragazzi israeliani di ritorno dalla visita ai campi di sterminio – considerava sconcertato il protagonista – “Gaza è giustificata da Auschwitz”. Non è cosa da poco: vi sono modi differenti di ricordare la Shoah? Scopi differenti? Altro è ricordarla negli stati dove lo sterminio si consumò; altro in Israele, la cui fondazione fu anche un esito storico di quell’evento?

«È una questione estremamente complessa – considera Segre –. Partirei dalla sua ultima osservazione. In realtà Israele non è erede della Shoah, ma è l’esito del progetto sionista, nato ben prima della Shoah, originato semmai dall’antisemitismo dell’Europa cristiana, in particolare dell’Europa centro-orientale e della Russia zarista. Poi, certo, il progetto si realizzò dopo la Shoah, e questo in un certo senso fa sentire giustificati quegli israeliani che affermano: noi siamo gli eredi della Shoah e rivendichiamo il diritto di farne memoria».

Non tiriamo in ballo Dio

Come e a quale scopo fa la differenza, precisa Segre. Molte delle maniere in cui viene praticato il ricordo della Shoah sono funzionali a politiche contingenti. Con i rischi che ne derivano: «Pensi allora a cosa sarà tra cinquant’anni, quando non solo i superstiti, ma anche i loro figli e nipoti non ci saranno più: a quali utilizzi e manipolazioni sarà sottoposta la memoria».

Ma se c’è il rischio, c’è anche il modo per scongiurarne gli esiti. Uno, determinante secondo Segre, è «evitare la mitizzazione della Shoah, un processo analogo a quello della mitizzazione dei rapporti tra ebrei e non ebrei nel corso delle generazioni. Mi spiego: non solo la Shoah, ma tutta la vicenda ebraica ha vissuto una mitizzazione che ha avuto il sopravvento sulla interpretazione storica. Gli ebrei stessi sono stati oggetto di un mito, ora positivo ora negativo. E data la resistenza del discorso antisemita nel corso dei secoli direi che è stato il secondo a prevalere; dapprima nel mondo cristiano e più recentemente in quello musulmano. Di questa mitizzazione sono in parte responsabili gli ebrei stessi, ai quali tocca per primi vincere le resistenze di chi vuole tenere in vita la visione mitica di sé».

Di qui l’esigenza di affrontare la materia in termini storici, non mitici. «Glielo dico da vecchio ebreo: molti dei nostri trascorsi guai – nostri di ebrei e non ebrei – nascono dalla sostituzione della storia con il mito. Se invece si riporta il pensiero fuori dal mito, si converrà che la Shoah è stata una tragedia per gli ebrei, ma anche per l’Europa che, perpetrandola, si è procurata un danno colossale. Non ha senso, perciò, tirare in ballo la divinità, il silenzio di Dio. Anzi, direi che va definitivamente archiviata una interpretazione diciamo così teologica dello sterminio degli ebrei d’Europa. Quelli di cui parliamo furono atti umani, la responsabilità non è di altri. In questo senso, Yehuda Elkana propone l’oblio come misura di risanamento, processo laico rispetto a una teologizzazione del discorso sulla Shoah. Quello fu un terribile evento storico che va studiato in quanto tale; come si fa con altri genocidi, da quello degli armeni, che lo precedette, a quelli della nostra epoca, penso a quello dei tutsi ruandesi. Questa attitudine può essere una sorta di monito – benché non una garanzia – perché simili catastrofi non si ripetano». Smitizzare, laicizzare, relativizzare. Segre ha ben presente il rischio che queste parole in bocche altrui – negazionisti, o anche solo “agnostici” – possano voler significare l’opposto. Dunque potremmo chiederci a chi appartiene la memoria: se alle vittime (pur senza giungere alla disperata affermazione di Levi, secondo cui il testimone autentico fu il sommerso), è destinata a finire con l’ultima di esse (il timore di testimoni, fino a Liliana Segre). Se la memoria appartiene invece alla collettività, non si espone all’ondivago spirito del tempo, alla manipolazione?

«I rischi sono infiniti, e molti legati alla totale ignoranza dei fatti – osserva Segre –. Gli stessi viaggi scolastici ad Auschwitz, senza che i giovani siano debitamente preparati, possono ridursi a una banalizzazione della memoria. Ma anche a proposito dell’unicità della Shoah bisognerebbe essere cauti. Per definizione tutti i massacri sono unici, come lo è ogni fenomeno, del resto».

Il gas e i machete

A differenziarli possono essere la scala del crimine e i mezzi per compierlo, ma non la sua natura. Quindi, prosegue Segre, «volendo attribuire una unicità alla Shoah, lo farei nel senso che è difficile trovare nella Storia un regime analogo a quello nazista, capace di calamitare l’entusiasmo di un popolo, per altri versi civilissimo e colto, per ottenerne la collaborazione attiva a un genocidio pianificato e condotto su scala e con un’organizzazione industriale. Si può dire che il genocidio in Ruanda ebbe un altro carattere – non c’erano Hitler né il Mein Kampf – ma i machete furono altrettanto “efficaci” del gas». Stermini nella cui origine ideologica risiedeva la rivendicazione di un (presunto) torto storico subito. Per questo «Yehuda Elkana ha ammonito che ogni popolo è in grado di diventare genocida, che tutti siamo esposti allo stesso rischio; e invitava a dimenticare, considerando l’oblio una sorta di medicina preventiva, per evitare le cose orrende di cui potremmo scoprirci capaci». E non si parla di passato: «Guardi – mi dice Segre – sono italiano, pur ebreo, e non posso ignorare che nel fare i conti col passato fascista siamo stati del tutto reticenti. Le ventate di sovranismo razzista che oggi riscuotono tanto successo sono il chiarissimo frutto di una mancata ammissione che il Paese aveva vissuto un periodo di consenso entusiastico per quel regime, anche quando impose le leggi razziali».

Eppure la negazione, da quella becera a quella insinuante, guadagna spazi sempre maggiori nel discorso pubblico. Passando anche attraverso l’autovittimizzazione di chi non ha fatto i conti con le proprie complicità. Penso non solo alle recenti leggi polacche in materia, ma anche al caso di Wikipedia, dove è rimasta a lungo la menzogna dei “campi di sterminio” in cui sarebbero stato gasati migliaia di polacchi… «Il negazionismo – spiega Segre – nacque subito dopo la guerra, figlio del silenzio delle vittime e di quello, interessato, dei carnefici. Il primo lavoro storico serio sullo sterminio fu pubblicato nel 1960, lo studio di Raul Hillberg ’La distruzione degli ebrei d’Europa’. Hillberg, ebreo austriaco, trasferitosi negli Stati Uniti dopo l’Anschluss del 1938, da militare arruolato con l’esercito americano si trovò in Germania dove poté accedere agli archivi della Gestapo. Sulla base dei documenti dei carnefici riuscì a ricostruire la vicenda. Nel 1961, poi, si celebrò il processo di Adolf Eichmann, anch’esso uno stimolo alla ricerca storica. Ma quello che voglio far notare è che tra il 1945 e i primi anni Sessanta, erano note solo poche testimonianze, alcune delle quali fondamentali; e tuttavia inizialmente non comprese nella loro importanza, come avvenne con ’Se questo è un uomo’, di Primo Levi, rifiutato da Einaudi».

Il monito di Primo Levi

«In questo lungo periodo di silenzio – continua – germinò il discorso negazionista, dapprima in forma di lamentela – “la storia scritta dai vincitori” – poi senza più infingimenti. Ma la documentazione raccolta dagli storici è schiacciante e non consente di formulare dubbi onesti. Il negazionismo, in altri termini, nega l’evidenza, si smentisce da sé». E, di nuovo, non è solo teoria: «Non va trascurato che il negazionismo è sempre strumentale a politiche precise. Nel caso dei polacchi, poi, è ben riconoscibile. Non a caso Polonia e Ungheria sono i paesi più determinati a non accogliere rifugiati in questi giorni nostri. E noto anche che il premier israeliano Benjamin Netanyahu è tuttaviańbuon amico di Viktor Orban e Jarosław Kaczy ski». Laicizzare, dunque, storicizzare la Shoah. La Storia – lo studio della Storia – è certo un antidoto alla manipolazione memoriale. E tuttavia non teme Bruno Segre che la storicizzazione di quell’evento lo allontani dalle coscienze, dai sensi di colpa che pure svolgono un compito nella psiche individuale e, se esiste, collettiva? «Non saprei. Distinguerei piuttosto le due cose. È vero: storicizzare significa relativizzare, ma non nel senso di sminuire. Semmai col significato di mettere questo evento in rapporto a tutto alla Storia, a riportarvelo dentro, senza pretendere una sua natura a-storica.

Capisco però il suo scrupolo: uno nato oggi potrebbe schermarsi dietro un ‘ma io che cosa c’entro?’. Ed è vero: la Storia non ha sensi di colpa. La cosa tuttavia non mi scandalizza, né mi preoccupa più di tanto. Mi preoccupa di più il tentativo di tenere la Shoah fuori dalla Storia per trasformarla in una sorta di tabù o mito: questo sì la esporrebbe a tutte le manipolazioni. Ritengo più difficile strumentalizzare un fatto storico che un mito. Vede, io sono molto vecchio, e all’epoca in cui andavo alla scuola elementare – prima di venirne espulso perché ebreo – le maestre ci facevano entrare in classe marciando come piccoli soldatini. In aula c’erano esposti il crocefisso con ai lati i ritratti del re Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini. Il clima era di esaltazione della romanità, dell’impero, figuriamoci. Eravamo stati allevati in una bolla di menzogne (complice l’interesse della Chiesa cattolica), perfetta rappresentazione di come si può manipolare il mito. L’ho fatta lunga, vede, per dire che il mito finisce sempre per tradursi in pedagogia, propaganda al servizio di un potere. Direi di più: sarebbe meglio passare a discorsi meno pretenziosi attorno alla Shoah, anche attraverso la sua relativizzazione, intesa come confronto con le altre atrocità della storia». Una interpretazione nuova, e coraggiosa delle parole di Levi… “può accadere di nuovo”.

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