Estero

Diritti siriani

A colloquio con Donatella Rovera di Amnesty International

16 ottobre 2019
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Mentre continua l’attacco turco contro i curdi nel nordest della Siria, l’investigatrice del Crisis Response Program ci spiega cosa ha visto nel corso delle sue indagini sul campo. Sguardo su un conflitto nel quale è impossibile distinguere nettamente i buoni dai cattivi, e dove ‘la realtà è molto diversa dalla narrazione che se ne fornisce’ lontano dal fronte.

«È un conflitto multidimensionale, dove alle divisioni interne si aggiungono le ingerenze internazionali: non ci sono semplicemente i buoni da una parte e i cattivi dall’altra». Donatella Rovera, investigatrice del Crisis Response Program di Amnesty International, si occupa da oltre vent’anni di trovare prove materiali per dimostrare le violazioni dei diritti umani in zone di guerra e di crisi. Parla correntemente l’arabo, si muove spesso da sola per evitare di essere manipolata dai ciceroni locali (i cosiddetti ‘fixer’), preferisce parlare solo di quello che ha potuto verificare. E ci tiene a sottolineare che «la realtà sul terreno spesso è molto diversa dalla narrazione che se ne fornisce lontano dai teatri del conflitto».

Eppure nel caso dei curdi aggrediti dalla Turchia la questione si direbbe piuttosto chiara: le vittime sono state tradite dagli americani, il carnefice (o aspirante tale) è Erdogan.
Non è così semplice. I curdi amministrano anche zone a maggioranza araba, in una situazione dove comunque i presupposti per uno Stato di diritto sono molto fragili. E così come i curdi non amano essere governati dagli arabi, gli arabi non amano essere governati dai curdi.  Inoltre i diritti umani sono stati violati anche dagli stessi curdi: già nel 2015 avevamo documentato la distruzione totale di villaggi arabi nel nord della Siria, analogamente a quello che su scala maggiore è accaduto in Iraq. A complicare ulteriormente il quadro è anche una minoranza curda filoturca, legata ad altri gruppi di ribelli siriani e ostile alle milizie dell’Ypg (Unità di protezione popolare curda, ndr).

Ma l’invasione turca...
Attenzione a non parlare semplicisticamente di invasione turca. Bisognerebbe ricordare che i bombardamenti sono sì effettuati da Ankara, ma l’azione sul terreno è in mano a gruppi ribelli siriani, seppur armati dalla Turchia. Di certo il potenziamento curdo da parte degli Usa ha esacerbato le tensioni al confine. Anche stavolta il rischio è che ad andarci di mezzo siano i civili: si parla già di centinaia di migliaia di sfollati.

Però gli Usa hanno tradito un alleato e fatto una mossa che indebolisce ulteriormente la regione. O no?
Mah, è difficile capire cos’abbia in testa Donald Trump, che spesso agisce in contrasto con esercito ed intelligence. Va detto però che anche la presenza americana nella Siria del nordest era piuttosto innaturale, proprio perché armando e sostenendo i curdi rischiava di contribuire alle tensioni regionali. D’altronde anche l’esercito americano ha gravi responsabilità nel conflitto, come dimostrano le migliaia di civili uccisi e feriti dalla Coalizione occidentale durante l’attacco a Raqqa (capitale dell’Isis in Siria fino alla sua caduta nell’ottobre 2017, dopo quattro mesi di bombardamenti, ndr).

Dal punto di vista americano, immagino che la giustificazione venga dalla lotta all’Isis.
Presentarsi come ‘liberatori’ è una versione che spesso stride con la realtà. Raqqa è stata distrutta per più dell’80%. In venticinque anni di lavoro non avevo mia visto una cosa del genere, neanche a Falluja e Mosul, in Iraq. E se l’esercito che dispone delle tecnologie più avanzate e più precise fa questo, si immagini che metro di condotta può dare agli altri combattenti.

Sempre a proposito di Isis, ora si teme che i circa 11mila sospetti combattenti detenuti nelle prigioni curde – fra i quali 2mila ‘foreign fighters’ – possano scappare e tornare a combattere, o addirittura esportare la jihad in Occidente. Con loro, le migliaia di famigliari che vivono nei campi profughi della zona.
All’inizio, l’amministrazione curda voleva rispedire lei stessa i foreign fighters in Europa. Poi si è resa conto che farsene carico garantiva una certa misura di riconoscimento e di aiuto da parte dell’Occidente. Ma non bisogna dimenticare che in quella zona, nelle condizioni attuali, non può esistere un giusto processo. È difficile sapere quello che succede in quelle prigioni, dove ci sono anche dodicenni insieme a jihadisti adulti e dove molti sono detenuti dalla caduta di Raqqa, ma altri da molto prima. In ogni caso questi giorni sono troppo concitati per fare previsioni.

Ora si ipotizza che la Turchia voglia utiliz­zare la zona siriana a ridosso del confine per rimpatriare almeno in parte gli oltre tre milioni di rifugiati che ha accolto dall’inizio del conflitto.
Se lo facesse, consegnerebbe quelle persone a condizioni inaccettabili. È anche discutibile chiamarlo rimpatrio, visto che solo una minoranza dei rifugiati viene da quella zona: si ritroverebbero a essere sfollati interni. Ma di certo Ankara ne avrebbe la possibilità, e ne trarrebbe anche un vantaggio politico: in tempi di crisi economica, la presenza siriana in Turchia ha generato tensioni crescenti presso la popolazione locale. Un problema che peraltro si ritrova anche in Libano, dove c’è oltre un milione di rifugiati a fronte di soli sei milioni di abitanti.

C’è chi parla di arabizzazione dell’area, e chi denuncia il ricatto del presidente turco Erdogan all’Europa: se non mi fate fare come voglio io, vi mando i migranti che ho dovuto accogliere al posto vostro.
Quanto all’arabizzazione, ripeto: la regione è già etnicamente variegata, non ci sono solo i curdi. Davanti all’Ue, il ricatto sui rifugiati è già stato utilizzato ripetutamente da Erdogan. È la conseguenza di un’Europa che ha scelto di commercializzare la questione dei migranti, fornendo sostegno economico al governo turco (oltre sei miliardi di franchi, ndr) purché fermasse l’afflusso verso ovest.

I nodi dell’opportunismo europeo vengono al pettine, insomma. Ora l’Europa cosa dovrebbe fare?
Anzitutto, la sua parte. Ovvero accogliere una quota maggiore di rifugiati, perché la situazione è insostenibile e i paesi confinanti hanno a loro volta chiuso le frontiere. Con il risultato che ad esempio nella zona di Idlib, nel nordovest della Siria, ci sono tre milioni di abitanti scappati dagli attacchi di Assad e dei russi, che si ritrovano in un vicolo cieco: non sanno più dove andare e vivono in condizioni agghiaccianti. L’Ue deve affrontare la cosa per quello che è: non un grattacapo che si risolve con qualche soldo, ma un’emergenza umanitaria.

Ad esempio?
Fra Idlib e Hama, ho conosciuto una famiglia che vive in una cava abbandonata da secoli. È dal 2013 che si erano rifugiati in queste specie di catacombe, per proteggersi dalle bombe. Pensavano che l’emergenza sarebbe durata pochi mesi, invece sono ancora lì. Poco lontano, sottoterra hanno realizzato un intero ospedale. È impressionante vedere come i cittadini e le famiglie più comuni riescano ad adattarsi alle condizioni più avverse.

A cosa serve il lavoro di Amnesty?
Anzitutto a mettere i vari attori di fronte alle loro responsabilità. È il caso di Raqqa: grazie alle prove che abbiamo raccolto, gli Usa hanno iniziato ad ammettere almeno parte dei casi in cui i loro bombardamenti hanno ucciso civili. Per avere giustizia e risarcimenti ci vorrà tempo, ma intanto la coscienza dell’accaduto può aiutare a superare una certa denegazione, e ad evitare di ripetere gli stessi errori.

 

Il ritorno di Assad, forse

L’intervento turco contro i curdi apre un nuovo fronte nella guerra in Siria, che si trascina dal 2011 e ha già fatto oltre mezzo milione di vittime (in un paese che conta 18 milioni di abitanti). Dopo la repressione delle proteste pacifiche da parte del regime di Bashar al-Assad, i primi scontri armati, la jihadizzazione di parte della resistenza, le bombe (anche) russe contro i ribelli e quelle americane contro l’Isis, quello che si prospetta è un altro tragico classico dei conflitti nell’area: il massacro dei curdi, dopo la decisione da parte di Donald Trump di ritirare le truppe che ne appoggiavano la resistenza. Parte dell’opinione pubblica occidentale è particolarmente colpita da questa evoluzione del conflitto, dato che i curdi – a torto o a ragione: vedi sopra – sono ritenuti combattenti per la libertà particolarmente ‘progressisti’, impegnati in esperimenti di autonomia politica e coraggiosamente schierati contro lo Stato islamico. È ancora difficile capire se gli scontri dureranno settimane, mesi o anni, ad esempio, e se il presidente Usa potrà ottenere un cessate il fuoco a forza di sanzioni.

Secondo Matteo Colombo dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) gli obiettivi del presidente Recep Tayyip Erdogan sono tre: “impedire la creazione di una regione autonoma curda nel Rojava”; cambiare “la composizione etnica del Rojava” attraverso “il graduale ricollocamento di un milione di rifugiati siriani, prevalentemente di etnia araba” nella ‘safe zone’ al confine (vedi mappa); e poi “compattare il consenso interno” in un periodo di difficoltà economiche e crescente ostilità per i rifugiati siriani.

Più in generale, l’intervento potrebbe portare al “riavvicinamento dei destini dell’est e dell’ovest della Siria”, come nota un altro ricercatore dell’Ispi, Eugenio Dacrema. Negli ultimi anni a est – zona curda compresa – si era giocata la battaglia americana contro l’Isis, mentre a ovest proseguiva quella del governo di Assad e dei suoi sostenitori internazionali (Russia e Iran in primis) contro i ribelli (a loro volta appoggiati dalla Turchia). Ora le dinamiche dell’ovest potrebbero traboccare a est. Tanto più che i curdi hanno siglato un accordo col loro ex nemico Assad in funzione antiturca: una vittoria importante per il regime. Secondo l’accordo, l’esercito siriano tamponerà l’avanzata turca ed eventualmente libererà centri già occupati dalla Turchia, come Afrin.

Se nel frattempo Ankara dovesse ricollocare i profughi siriani – in maggioranza legati alle milizie anti-Assad – in questa lingua di terra, la situazione si farebbe ancora più instabile.

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