Estero

Capire i Gilet gialli: parola al sociologo

Michel Wieviorka spiega perché è sbagliato confondere la protesta francese coi populismi grillini e la Brexit

((Keystone))
27 aprile 2019
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“Génial”. Quando si tratta di descrivere l’esperienza dei Gilet gialli a quasi sei mesi dalla loro apparizione, il sociologo francese Michel Wieviorka non nasconde una certa ammirazione: “Hanno saputo combinare la presenza virtuale con quella reale. Incontrandosi sulle rotonde hanno spezzato la loro solitudine, hanno sfidato un potere politico percepito come verticale e arrogante”, ha notato in un incontro all’Usi il direttore dell’Ehess di Parigi.

Ci sono stati episodi di violenza, di razzismo e antisemitismo, certo, e “sarebbe assurdo ignorarli”. Ma sarebbe sbagliato ridurre un’esperienza trasversale e acefala a quei “protagonisti delle violenze che si collocano alla periferia del movimento”. Né si deve dimenticare che si tratta di “un movimento difensivo, a protezione di un modello sociale e culturale che va disfacendosi ormai da trent’anni, in particolare per gli effetti della globalizzazione, della destrutturazione dello stato-nazione e dell’uscita dall’era industriale classica”.

Professor Wieviorka, a volte si tende a considerare i Gilet gialli come l’ennesima incarnazione del populismo europeo, lo stesso dei Brexiteer e del MoVimento 5 Stelle. È una lettura legittima?

In realtà si tratta di fenomeni molto differenti. Certamente ci sono similitudini nella natura dello scontento che esprimono e nelle condizioni sociali che lo determinano, ma c’è una distinzione estremamente importante: a differenza di quanto accade in Italia e in Gran Bretagna, i Gilet gialli sono e restano un movimento sociale, non politico. Le loro domande sono di natura sociale come le risposte che esigono, sia pure dalla politica; al contempo rifiutano di costituirsi in soggetto politico, di accettare leader che li rappresentino. Basti pensare che non hanno voluto proporre liste per le prossime elezioni europee.

Ma per quanto potranno sopravvivere restando ‘fuori’ dalla politica? E a cosa gioverebbe rimanere fondamentalmente disorganizzati e privi di rappresentanti?

È impossibile prevedere quanto potrà prolungarsi la protesta e se si trasformerà in qualcosa di politico. Se si cercano esempi nel passato, si vede che questo tipo di contestazioni può avere esiti molto diversi: la grande rivolta dei viticoltori del 1907 (in risposta alla crisi del settore e soppressa nel sangue dal governo Clemenceau, ndr) è scomparsa in breve tempo; invece le lotte operaie iniziate agli albori del XIX secolo sono durate un secolo e mezzo, fra scioperi, conquiste sociali, creazione di cooperative e organizzazioni di mutuo soccorso. Più di recente, Occupy Wall Street si è spento rapidamente, ma le sue idee sono riaffiorate alla sinistra del partito Democratico con Bernie Sanders, così come le contestazioni degli Indignados in Spagna hanno agevolato l’ascesa di Podemos. Non credo che il movimento dei Gilet gialli conserverà a lungo la forma attuale, e può anche darsi che alcune forze politiche possano approfittarne. Comunque vada, però, penso che abbiano inaugurato un nuovo periodo storico, un nuovo modo di declinare la protesta politica attraverso una combinazione di manifestazioni fisiche e attivismo digitale.

E tutto per colpa delle tasse sulla benzina.

Quella è stata la scintilla, e se il governo avesse risposto con maggiore prontezza magari tutto si sarebbe risolto in breve, lì per lì. La polveriera invece è quella di una grande parte della popolazione che sente di non esistere politicamente, di essere ignorata e dimenticata. Si tratta di quel ceto medio-basso che vive in realtà rurali, oppure urbanizzate, ma comunque ben diverse dalle grandi città come Parigi, Lione, Marsiglia. Luoghi sempre più marginali e desertificati, nei quali ci si vede privati dei servizi fondamentali, dai trasporti pubblici alle poste. Qui l’auto è ancora un mezzo fondamentale, e non è quindi un caso che proprio dalle tasse sul carburante e dalle multe sia nata la protesta.

Che invece non si è estesa alle periferie dei grandi centri urbani, l’altro incubatore tipico del disagio francese. Si direbbe che fra la ‘diagonale del vuoto’ che solca la Francia profonda e le banlieues persista una reciproca diffidenza.

Nelle banlieues le esigenze sono diverse. L’auto non è il primo problema, i servizi – stazioni ferroviarie, uffici postali... – ci sono. Poi non si deve sottovalutare la diversa composizione sociale: nelle banlieues abitano soprattutto gli immigrati, che da subito hanno percepito il movimento come molto ‘gallico’, distante dalla loro identità oltre che dalle loro esistenze.

È solo un errore di percezione? Non le pare che i Gilet gialli siano piuttosto sensibili a una narrazione di tipo ‘bianco’ e conservatore, se non addirittura reazionario?

Non si può generalizzare. Dentro c’è di tutto. Ci sono istanze di destra, certo, ma anche di sinistra. E non tutti sono bianchi (in effetti Priscilla Ludosky, che con la sua petizione per l’abbassamento dei prezzi del carburante è considerata una delle ispiratrici del movimento, è originaria della Martinica, ndr). Molti, poi, sono quelli che da tempo non votano più e che hanno ritrovato nel movimento una spinta alla partecipazione pubblica.

Quali sono le risposte che la politica può dare?

Occorrerebbe muoversi in due direzioni: una più efficace rappresentanza politica di tutta la società, e l’introduzione di meccanismi di deliberazione diretta che non sostituiscano la democrazia rappresentativa, ma la completino.

Insomma proporzionale e democrazia diretta, in stile svizzero?

La Svizzera è senz’altro un modello al quale si può guardare, ma ce ne sono tanti altri, ad esempio quello irlandese. Il ‘Référendum d’initiative citoyenne’ proposto dai Gilet rivendica un maggiore elemento di democrazia diretta. Ma occorre anche che si ricostruisca la rappresentanza, che emergano forze di destra e di sinistra che non siano le stesse di un tempo, ma che tornino a essere presenti e non lascino campo libero ai partiti estremi.

L’impressione è che i manifestanti invochino uno Stato più presente, più protettivo. E che nel presidente Emmanuel Macron vedano invece l’incarnazione di un’élite che secondo loro intende smantellarlo.

È tipico della Francia pensare la politica e i processi sociali sempre in termini di Stato. Lo Stato in Francia è un elemento centrale, mai veramente contestato. Si può discutere se debba essere più centralizzato – il modello ‘giacobino’ – oppure meno – il modello ‘girondino’ –, ma è sempre allo Stato che ci si rivolge per avere una risposta ai problemi sociali. Fa parte della nostra storia. Quanto a Macron, di certo si è proposto come il volto nuovo del riformismo. Però poi si è anche proposto come novello Giove, come una sorta di monarca, collocandosi in una prospettiva di continuità rispetto all’immaginario francese. È quella verticalità che i Gilet gialli hanno sfidato (Macron si è poi visto costretto a lanciare il ‘Grande dibattito nazionale’, un insieme di migliaia di incontri a livello locale con cittadini e sindaci, ndr) . Il confronto che hanno instaurato è qualcosa di davvero nuovo.

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