Estero

Un premio alla dignità, nel segno delle donne

Quest'anno il Nobel per la Pace premia Nadia Murad e Denis Mukwege, ricordandoci che l'umanità va ritrovata tutti i giorni

( Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons)
6 ottobre 2018
|

“Il mercato degli schiavi apriva di notte. I clienti gravitavano anzitutto attorno alle ragazze più belle, chiedendo ‘quanti anni hai?’, esaminando capelli e bocca. ‘Sono vergini, vero?’, chiedevano alle guardie, che annuivano e dicevano ‘Certo!’, come un bottegaio orgoglioso delle sue merci”.
 
Leggere sul ‘Guardian’ le parole di Nadia Murad, premio Nobel per la pace, farebbe l’effetto di un cazzotto nei denti anche se non fossimo nell'anno del #MeToo. E c’è da supporre che sia proprio per questo che la giuria l’ha scelta: perché questa venticinquenne curda yazida, rapita dall’Isis durante l’offensiva nel Sinjar iracheno e rivenduta come schiava, una volta riuscita a fuggire ha deciso di non tacere. Che poi sarebbe stata una reazione più che legittima, considerato quello che ha subìto (per mano di un giudice, fra gli altri); lei invece ha raccontato per filo e per segno il meccanismo di sfruttamento dell’Stato Islamico: “portar via le ragazze e usarle come schiave del sesso non fu una decisione estemporanea fatta sul campo di battaglia da un soldato avido. L’Isis aveva pianificato tutto: come entrare nelle nostre case, cosa rendeva una ragazza più o meno ‘preziosa’, quali militanti meritavano una sabaya (schiava) come incentivo e quali se la sarebbero dovuta pagare. Presentavano perfino sabaya sul loro giornate patinato, Dabiq, nel tentativo di attirare nuove reclute”. Una storia raccontata anche nel libro ‘L’ultima Ragazza’ (Mondadori 2018). Chissà poi se le indagini dell’Onu sul suo e altre migliaia di casi porteranno a qualcosa: intanto è già un miracolo che se ne sappia qualcosa e che si continui a parlarne; che la determinazione mossa dalla dignità abbia vinto sulla vergogna.
 
Quella dignità, intesa stavolta come fare onestamente il proprio lavoro che altrove parrebbe normale, ma in certi paesi diventa un atto di eroismo, è la cifra che contraddistingue anche l’altro Nobel per la pace, Denis Mukwege. 63 anni, congolese, faccia sorprendentemente allegra, Mukwege è un medico specializzato in ginecologia e ostetricia. Ha fondato un ospedale a Bukavu, a est del paese, e quando gli è arrivata la notizia stava in sala operatoria: “ho sentito un gran trambusto fuori, ma stavo lavorando, quindi non gli ho dato peso”.
 
In quella sala, tutti i giorni vede i risultati di quello che anche Nadia Murad ha subìto: il suo compito, in sala operatoria, è rimediare ai danni fatti alle donne dalla soldataglia nel succedersi di conflitti locali. Un impegno ingrato e rischioso che Mukwege porta avanti con la pazienza di Giobbe, certo che “la giustizia è un affare di tutti” e che quindi non ci sono scuse per fingere di ignorare stupri e violenze. Tanto che lui non ha mai temuto di denunciare il governo congolese per i suoi silenzi e la sua inazione di fronte al problema. E ha sollevato la questione anche fuori dai confini del Congo, diventano un punto di riferimento per medici e attivisti in tutto il mondo.
 
Pertanto, per entrambi sarebbe limitante  e paternalistico dire che si tratta di un premio Nobel in difesa della donna. Per quanto retorico possa suonare, si tratta anche di un Nobel in difesa della generale dignità umana. Quella che è così facile perdere, anche per molto meno.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE