LAMPEDUSA

"Nei cinque anni di mandato mai un Natale senza sbarchi"

Intervista a Giusi Nicolini, ex sindaca di Lampedusa, che racconta a tutto campo la propria esperienza nel punto più a sud d'Italia

Keystone
22 maggio 2018
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Capita che un’isola e il suo sindaco diventino luogo e volto di un fenomeno che sta cambiando la nostra epoca. È toccato a Lampedusa e a Giusi Nicolini, prima terra d’approdo e prima figura istituzionale che decine di migliaia di migranti hanno trovato sulla loro rotta.

«Facendo quello che si deve fare: soccorrere, ristorare». È così che si affronta da un approdo sperduto nel Mediterraneo un fenomeno epocale come la migrazione dal Sud al Nord del mondo. L’approdo è Lampedusa e Giusi Nicolini, negli anni in cui ne è stata sindaco, ha cercato di fare ciò che reputava fosse suo dovere: soccorrere, ristorare. Quanti, signora? «Non lo so, ma tanti». Decine, centinaia di migliaia. «Nei cinque anni di mandato non ricordo un solo Natale senza uno sbarco». Un impatto senza confronti su un’isola alla periferia d’Europa, esposta a una pressione senza precedenti dalla periferia del mondo. E come se ne esce? Giusi Nicolini (ospite il 4 maggio scorso di Spazio Dialogo a Bellinzona, per il festival dedicato all’integrazione) ci pensa su. Non come chi non sa che risposta dare, ma si chiede se verrà davvero capita. Rispondere “cambiati”, infatti, non basta a spiegare tutto. «Gli sbarchi hanno cambiato gli abitanti non solo in relazione ai nuovi arrivati o a una esposizione mediatica mai conosciuta, ma anche in relazione alla propria quotidianità, imponendo di mettere ordine in emergenze cronicizzate, dai trasporti, alle scuole, alla rete idrica, alla depurazione delle acque. In breve: a recuperare gli effetti di una lontananza che era divenuta anche un modo di pensare». Non del tutto, però, visto che dalle elezioni amministrative dell’anno scorso, Giusi Nicoli è uscita sconfitta, e che della carriera politica che qualcuno aveva fatto balenare per lei non si è vista traccia («ma di questo non mi dispiace, mi creda, mi onoro di non avere le qualità idonee alla ‘grande’ politica»). Lontani dal “continente” (e dallo Stato), dicevamo, e così vicini alla povertà altrui. Bastò poco per fare di Lampedusa, almeno nel codice dei media,“l’isola degli sbarchi”. Prima una formula giornalistica, poi una sorta di marchio. «Alla gestione degli arrivi caricata quasi del tutto sugli abitanti, sulla loro disponibilità a soccorrere e ad accogliere, si è aggiunta una crisi del turismo, tenuto lontano da quella immagine e da episodi puntuali di particolare problematicità».

La visita del papa

L’immagine, anzi: le immagini. Un sistema che si alimenta di immagini e di ciò che pretendono di mostrare. Uno dice Lampedusa e pensa a un Berlusconi in visita di propaganda, che raccomanda ai residenti di rinfrescare le tinte delle loro case, annunciando che ne comprerà una per sentirsi anche lui isolano; o a un Renzi che vuole con sé Giusi Nicolini alla Casa Bianca per rappresentarvi un’Italia di cui menar vanto; o a un papa Bergoglio che ringrazia i lampedusani per quanto si prodigano e prega rivolto al mare per quei poveri morti, chiedendo loro perdono per la nostra grettezza.

Una paura a programma

“Quante memorie possono convivere in un posto così piccolo?”, si è chiesto l’antropologo Marco Aime. Quante immagini di Lampedusa, signora Nicolini? «Non lo chieda a me. Televisioni e giornali ne parlano quando ne hanno voglia o quando devono colmare dei vuoti. Non so se è superficialità o cinismo, ma mi sembra un modo certo per diventare megafono di propagande politiche precise: il tema torna di moda in campagna elettorale o quando si tratta di distrarre da altri temi non meno gravi». Televisioni e giornali, tanto solerti nello sparare il numero degli sbarchi, «non mostravano in realtà ciò che avveniva, né spiegavano le ragioni che spingono quei disgraziati a tentare la traversata. Non parlavano dei morti. Pochi mesi dopo essere entrata in carica, quando una imbarcazione approdò con un nuovo carico di salme, feci un appello pubblico all’Europa. In quell’occasione, il tg parlò dello sbarco e non disse nulla dei morti. Capito? Servono i vivi per spaventare le persone». E non è che quando la tv non ne parla, il fenomeno non si produce… «Già. Infatti ci siamo detti: non si può fingere di essere davanti a una emergenza, ma bisogna considerare il fenomeno come strutturale, con tutto ciò che comporta». In quel tutto è compresa l’ipocrisia. «Ci pensi: oggi domina il tema del terrorismo; in precedenza andava quello delle malattie. A Lampedusa non c’erano ospedale né medici a sufficienza per i residenti, figuriamoci per tutte quelle persone. Ma soprattutto, i migranti sbarcati non erano veicoli di epidemie; piuttosto, le loro patologie erano tutte conseguenza delle condizioni del viaggio per terra e per mare, delle violenze inaudite – pensi alle donne – subite prima di imbarcarsi. Altro che epidemie».

Quello che è giusto fare

Lampedusa non ha scelto di “essere lì”, avverte Giusi Nicolini, ma trovarsi “lì” la carica di una responsabilità che ad altre terre è risparmiata. Porta di un’Europa che pur la considera marginale, Lampedusa agli occhi dei migranti è sempre un obiettivo sovraccarico di attesa. Come affrontare una situazione che chiede disponibilità e mezzi superiori a quelli di cui si dispone? «Facendo quello che è giusto fare. Soccorrere, ristorare. Riconoscere che all’origine della nostra paura ci sono una crisi, un disagio sociale preesistenti e più profondi. Questa gente scappa da guerre o dalla povertà, guasti a cui storicamente abbiamo concorso anche noi, società ricche». Anche per questo Giusi Nicolini non è stata rieletta («Volevo correre più di quanto i lampedusani fossero disposti a fare»). Le spiace, naturalmente, ma lo rifarebbe. La guardo e so che è vero.

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