Estero

La versione di Zuckerberg

Il fondatore di Facebook risponde al Congresso Usa dopo lo scandalo Cambridge Analytica

12 aprile 2018
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Chi si aspettava un interrogatorio in stile ‘Nixon hearings’ è rimasto deluso. La testimonianza di Mark Zuckerberg davanti al Congresso è stata a tratti aspra, ma senza colpi di scena. Anche perché molti legislatori (specie al Senato) hanno dimostrato una comprensione rudimentale di Facebook; sicché le risposte di ‘Zuck’ sembravano le spiegazioni del nipote alla nonna, quando chiama e dice “mi si è rotto l’internet”. Alcuni, come il senatore repubblicano Roger Wicker, hanno dimostrato di non capire neppure la differenza fra social e fornitori delle connessioni a internet.

Al netto di alcune critiche come quelle della deputata democratica Debbie Dingell, che ha esposto con dovizia di particolari i casi in cui l’autodisciplina di Facebook si è rivelata un miraggio, Zuckerberg se l’è cavata bene nel rispondere ai quesiti su privacy, cyberpropaganda e business. Sciorinando frasi mandate a memoria e provate chissà quante volte davanti ai suoi coach. E presentandosi come l’incarnazione del sogno americano 2.0: il ragazzino che dalla sua stanza al college arriva a costruire un colosso tecnologico.

Quali regole?

La miriade di domande sull’attuale gestione della privacy ha tolto spazio al più ampio dibattito sulle regole: di fronte alla crescita spropositata di Facebook, servono nuove leggi? E quali? Il problema è che le norme possono sì limitare gli abusi nell’uso di dati personali, ma rischiano anche di ‘cementare’ la posizione (semi)monopolistica del network: il loro rispetto imporrebbe infatti risorse legali e tecniche che nessun potenziale concorrente, in fase di start-up, potrebbe permettersi. E addio American dream.

Per capire se e quali regole imporre ai social, poi, bisognerebbe capire cos’è e come funziona Facebook: impresa non facile, perfino per chi è di casa nella Silicon Valley invece che a Washington. Certo, il modello di business parrebbe semplice. “Come fate a fornire servizi gratuiti?” ha chiesto un senatore. “Con la pubblicità”, ha risposto Zuckerberg. Ma dietro a una risposta semplice si cela tutta l’ambiguità del caso: perché la pubblicità è efficace solo se Facebook riesce a profilare e ‘mercificare’ al massimo i suoi utenti, pratica potenzialmente in contrasto con i termini di utilizzo della piattaforma (i quali assegnano all’utente l’esclusiva proprietà dei suoi dati). E questo anche a prescindere dal ‘furto’ di informazioni da parte di terzi, come quello effettuato su 87 milioni di profili – incluso quello dello stesso fondatore di Facebook – da Cambridge Analytica, liquidato come un contrattempo che non si ripeterà più: cenere sul capo, e andate in pace.

Il mezzo e il messaggio

È stata affrontata poco e male anche un’altra ambiguità di Facebook: quella riguardante il suo ruolo nell’informazione. Se infatti la piattaforma veicola principalmente contenuti editoriali di terzi, è pur vero che il suo algoritmo influenza in maniera decisiva il grado di penetrazione di ciascun contributo, in modo nuovo e spesso celato agli stessi editori. Un’eventuale regolamentazione dovrà dunque definire anche la posizione dei social network rispetto ai media tradizionali.

Ma quando hai davanti un colosso con oltre due miliardi di utenti, padrone di un business completamente inedito, anche Washington sembra piccola. E nei giorni scorsi si è visto.

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