Estero

Riad e Teheran in trincea

15 novembre 2017
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Se anche Hassan Rouhani è arrivato a dire ai sauditi: “Non siete niente. Potenze più grandi di voi si sono rotte i denti contro di noi”, significa che le cose si stanno mettendo male. Il presidente iraniano, noto piuttosto per la sua prudenza, ancora pochi giorni fa è andato diritto al centro della questione: tra Teheran e Riad è in corso un confronto per una supremazia non soltanto regionale, che combina potenti interessi geopolitici e dottrinali (questi ultimi spesso enfatizzati ad arte).

Del potenziale destabilizzante della contesa si è avuta cruda rappresentazione in Siria (passando inosservato il dramma dello Yemen) la cui disgregazione ha chiamato in campo Stati Uniti e Russia, naturalmente su fronti avversi. Le alleanze formate attorno ai due capofila avevano nell’Arabia Saudita e nell’Iran i punti di forza (anche ideologica) a cui si accomodavano i rispettivi accoliti.

Adesso tocca a Beirut. Le dimissioni di Saad Hariri da capo del governo libanese (sostenuto, e tenuto in ostaggio, dai filoiraniani di Hezbollah) e il suo successivo “soggiorno” forzato a Riad fanno immaginare scenari disastrosi. Annunciando, da Riad, le proprie dimissioni, Hariri ha accusato Hezbollah e Teheran di volerlo morto (come successe a suo padre Rafik, fatto saltare in aria, si dice, dal “partito di dio” su mandato di Damasco). Negli stessi giorni l’aeroporto di Riad veniva colpito da un razzo sparato dalle aree controllate dai ribelli yemeniti filoiraniani, e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman provvedeva a epurare i vertici del potere, per coprirsi le spalle in vista di uno scontro non più soltanto propagandistico con gli ayatollah.

Dire Libano, è noto, significa evocare un incendio al cui confronto la tragedia siriana potrebbe impallidire. Perché se in Siria Assad, pur relegato nel ridotto di Damasco, ha mantenuto un certo controllo degli apparati di Stato, la configurazione settaria del potere condanna il Libano a implodere, scatenando i troppi “protettori” delle comunità che lo compongono. Con l’inevitabile coinvolgimento di Israele, che sembra non aspettare altro. Il Libano è un vaso di coccio. I precedenti sono istruttivi, in proposito. Se infatti l’origine più prossima delle tensioni arabo-iraniane è la disgregazione della Siria, la condizione perché ciò avvenisse è probabilmente da ricercare nell’accordo sul nucleare iraniano e sugli effetti che ha prodotto. Primo fra tutti la “riammissione” di Teheran nell’elenco dei Paesi presentabili, e ciò che questo comporta in termini economici, politici e, certamente, militari.

Se Benjamin Netanyahu si è speso in tutte le sedi contro l’accordo, considerandolo una minaccia esistenziale per Israele, Riad vedendo insidiata la propria leadership lo ha fatto in forma più coperta, ma con altrettanta determinazione, finché alla Casa Bianca è giunto Donald Trump. Da quando il presidente Usa ha annunciato che Teheran è tornata a essere lo sponsor principale del terrorismo, il premier israeliano e i sauditi non hanno perso tempo: una politica di “containement” non basta, e contro Teheran ne occorre una ben più assertiva. Tutta benzina, va detto, per i motori della propaganda dell’ala più oltranzista del potere iraniano, dai Guardiani della rivoluzione alla Guida suprema Khamenei.

È finita, ma siamo solo all’inizio, che l’Arabia Saudita ha chiesto un incontro urgente della Lega Araba, per discutere “delle interferenze dell’Iran nella regione”. E la miccia è accesa.

Giuseppe Dentice (Ispi): ‘Mohammed bin Salman si gioca tutto’

L’errore da non commettere è quello di ritenere che in Arabia Saudita sia in corso una “modernizzazione” dei costumi. Che Mohammed bin Salman, l’erede al trono, sia soprattutto interessato a “concedere” la patente alle donne o a combattere la corruzione, temi buoni per i titoli dell’informazione occidentale.
In realtà, ha scritto recentemente Giuseppe Dentice, ricercatore associato dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano, in Arabia Saudita è in corso una riorganizzazione del sistema di potere, che prelude al tentativo di riprendere la leadership regionale che Riad vede insidiata dall’attivismo di Teheran. Una prova di forza che può condurre a un conflitto la cui estensione sarebbe ben difficilmente contenibile.

Giuseppe Dentice, la ‘modernizzazione dall’alto’ in corso in Arabia Saudita può far sorridere o generare scetticismo in noi occidentali. Si può misurarne la portata secondo i canoni locali?
Secondo la lettura più diffusa degli eventi, in Arabia Saudita è certamente in corso il sovvertimento di un sistema che si regge su religione e monarchia. I religiosi riconoscono la monarchia assicurandole legittimità politica; viceversa la monarchia riconosce i religiosi come fattore di stabilità. Una legittimazione reciproca che garantisce la solidità del potere. Oggi, l’erede al trono sembra voler disarticolare questo sistema di bilanciamenti in favore della componente politica. Se sarà in grado di farlo non è ancora possibile dirlo. Ma certamente, nei canoni sauditi, queste “concessioni dall’alto” stanno a significare un tentativo di ridefinire gli ordini interni in una chiave preminentemente politica, per dare nuova stabilità e nuovo potere agli attori più forti. Si spiegano anche in questi termini le intimidazioni e gli arresti condotti tra le figure più elevate del sistema di potere. Una partita a tutto campo in cui il principe Mohammed bin Salman sta giocando la propria credibilità, e di conseguenza il proprio futuro.

Lei accenna a un ridimensionamento del clero wahabita. Lo stesso principe ereditario ha detto che è il momento di ‘ritornare a un islam moderato’, affermazione che ha un contenuto dottrinale, certo, ma anche una implicazione più estesa, se si pensa a quanto il discorso wahabita ha innervato quello di gruppi come al Qaida o l’Isis. Un percorso complesso. E poi: è credibile un Saud che parla di lotta all’integralismo? E con quali conseguenze sull’azione dei gruppi radicali?
In effetti, il principe ha usato un’affermazione ideologica e abbastanza ambigua, perorando la necessità di tornare a un islam pre-1979. Cioè a un islam che non si riconosce nella rivoluzione khomeinista in Iran. Si tratta di una visione monolitica di islam, direi anche dirigista. A mio modo di vedere, Mohammed bin Salman sta conducendo una partita molto particolare e rischiosa. Andare contro i religiosi può produrre due esiti opposti: in caso di successo, il principe si assicura una credibilità che può mantenerlo a lungo al potere; se va male, non solo si troverà contro una classe importante come il clero wahabita, ma soprattutto si sarà inimicato una classe di personalità con un grande seguito tra la popolazione e importanti ruoli nella cerchia del potere, rischiando l’emarginazione dal potere reale. Il suo tentativo sembra quasi mirato alla costituzione di un’autocrazia, qualcosa di simile al regime egiziano, dove un “uomo forte al comando” dirige lo Stato e dà indicazioni anche in materie religiose. Una visione ideologica di un islam piegato ai dettami della politica.

Si va verso una guerra regionale arabo-iraniana (più di natura politica che confessionale, mi sembra), o ci si limiterà ancora a quelle combattute per procura, dallo Yemen alla Siria?
Sembra che il principe saudita abbia in mente una strategia globale che comprende politiche rivolte al piano interno e politiche dirette all’esterno. L’Iran, non da oggi, è l’obiettivo finale di tutte le strategie saudite. Dal 1979 non viene considerato alcun altro nemico. In questo senso c’è continuità tra le mosse del principe e le politiche che lo hanno preceduto. La novità risiede nel fatto che si va oltre uno schema settario sunnitisciiti, cercando il frazionamento del campo avversario, partendo dal presupposto che non lo si può contenere militarmente. Dunque credo che le guerre per procura continueranno. A mio parere, inoltre, lo scontro ha già oltrepassato il livello retorico e ha toccato livelli di guardia molto importanti. Come se si volessero regolare i conti una volta per tutte. Ma deve essere chiaro che un eventuale nuovo conflitto non si limiterebbe a uno scontro a due, ma coinvolgerebbe l’intera regione, con conseguenze imprevedibili e presumibilmente devastanti.

Il Libano è da sempre il ‘fusibile’ del circùito mediorientale: è il primo a ‘saltare’. Un campo di battaglia di guerre altrui. Siamo di nuovo in questa situazione? E Libano significa Israele. Che cosa può accadere?
In effetti, come ha scritto Daniel Shapiro su ‘Ha’aretz’, sembra che l’Arabia Saudita stia spingendo Israele in una guerra contro Hezbollah. Probabilmente l’ex diplomatico israeliano si è avvicinato al vero: è possibile cioè che le mosse dei sauditi portino a una guerra regionale. Se il Libano dovesse implodere, il conflitto si estenderebbe immediatamente, come insegna la storia anche recente. Appare abbastanza evidente che un nuovo conflitto, undici anni dopo quello del 2006, potrebbe essere ben più nefasto, poiché coinvolgerebbe più dimensioni e più attori. Non riguarderebbe soltanto Israele, Arabia Saudita e Iran, ma vi sarebbero coinvolte la Siria, l’irrisolta questione palestinese, e naturalmente gli attori internazionali che sempre agiscono nella regione. La situazione complessiva è esplosiva: ad ogni singola azione corrisponde una reazione che ne amplifica la portata. Una corsa al radicalismo che può determinare cortocircuiti imprevedibili e soprattutto non contenibili. Se ci dovessimo basare su quanto avviene oggi, l’ipotesi di un conflitto non è assolutamente da escludere. Consideriamo infine che Israele oggi si sente assediato su tutti i lati e in una situazione destabilizzata non si può escludere che possa assumere iniziative militari unilaterali.

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