Non è il contrattacco dei banchieri centrali al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ma poco ci manca: con toni e sfumature diversi, i numeri uno di Fed e Bce al Forum delle banche centrali di Sintra fanno muro, punto su punto, all'agitarsi del presidente Usa che sembra voler scardinare l'ordine monetario globale.
Con Jerome Powell che fa capire che avrebbe tagliato i tassi se non fosse stato per i dazi, agli attacchi di Trump risponde "siamo focalizzati al 100% sul mandato" della Fed, e attacca sul debito che è a livelli sostenibili ma su una traiettoria "insostenibile" da correggere prima piuttosto che poi, altro che 'Big Beatiful Bill' di Trump.
E Christine Lagarde che vede nel 2025 l'anno del potenziale declino del dollaro e boccia l'abbraccio del tycoon alle stablecoin: si andrebbe "verso la privatizzazione della moneta".
Nell'immediato ci sono le prossime decisioni di politica monetaria delle due principali banche centrali al mondo. Per la Fed, che da mesi resiste alle bordate di Trump arrivato a chiamare "stupido" Powell perché non taglia i tassi. "In effetti ci siamo messi alla finestra vedendo le dimensioni dei dazi e tutte le stime di inflazione", risponde candidamente Powell alla domanda se, non ci fosse stato il 'Liberation Day', di Trump la Fed avrebbe già tagliato. "La cosa prudente da fare è aspettare di capire meglio gli effetti".
Con l'inflazione attesa in rialzo nei mesi estivi, sia pure con un mercato del lavoro in "graduale raffreddamento", Powell sorvola sui toni roboanti di Trump e prende ancora tempo: "non saprei indicare o escludere un mese" in cui la Fed inizierà a tagliare, risponde a chi gli chiede se un taglio al meeting di luglio sia escluso.
Per una volta lo scenario è più facile per la Bce, che in un anno ha già tagliato di quasi due punti pieni. Con l'inflazione di giugno esattamente all'obiettivo del 2% Lagarde può dire "non missione compiuta, ma obiettivo raggiunto".
Pur con un secondo e terzo trimestre con crescita attesa poco sopra lo zero dopo il +0,6%, la Bce potrebbe aspettare settembre o fine anno per il prossimo taglio: salvo che il negoziato sui dazi finisca con un disastro e imponga un'accelerazione. Ipotesi non assurda, se si considera che un nodo chiave nella trattativa con l'Europa è la regolamentazione europea di Big Tech dove Trump ha minacciato di rompere col Canada.
E poi c'è un altro punto di forte pressione sulla Bce: il supereuro, o meglio il mini-dollaro. Il cambio euro/dollaro tornato a 1,18, quando pochi mesi fa, prima di Trump, sui mercati si puntava sulla parità. Un 'dazio' a suo modo sulle imprese esportatrici perché rende i prodotti europei più costosi, e un fattore di 'disinflazione' perché abbassa i prezzi all'import.
Fino a 1,20, dice il vice di Lagarde Luis de Guindos, la situazione è gestibile, oltre è "molto più complicata". Gli fa eco il governatore lettone Martin Kazacs, con un cambio apprezzato del 10% e dazi al 10%, l'ipotesi di accordo con Trump, ci sono rischi per l'export.
Lagarde non si sbilancia - il 2% dei tassi è ormai un livello neutrale - e prende tempo: "nessun impegno" sui tassi futuri, si decide meeting dopo meeting sulla base dei dati. Invece il 'semestre nero' del dollaro, quel crollo del 10% del dollar index a gennaio-giugno che è il peggiore dal 1973 fra le ipotesi di un sistema monetario dollaro-centrico messo in crisi da Trump, fa pensare che il 2025 "potrebbe essere" un anno decisivo, dice Lagarde: anche se sono cambiamenti che richiedono tempo e l'Europa deve prepararsi. Con le riforme, l'unione dei risparmi e investimenti, e ponendosi come àncora di stabilità in un mondo in frammentazione. A partire dalla moneta: l'euro digitale contro la scommessa di Trump sulle stablecoin, bocciate da Lagarde come una pericolosa "privatizzazione della moneta".