La recensione

La società ‘limitariana’, l’ideale regolatorio

Uno stimolante saggio propone un limite massimo alla ricchezza degli individui quale soluzione alle grandi sfide del nostro tempo: fame, povertà, clima

Quanto vale essere olandese (o svizzero) rispetto all’essere americano? Nel caso di un olandese 9 milioni, dal momento che gli olandesi si considerano ricchi con uno, mentre agli americani ne servono 10. Questa è solo una delle riflessioni che scaturisce dalla lettura del saggio di Ingrid Robeyns ‘Limitarianism. The case against extreme wealth’, professoressa di etica delle istituzioni all’Università di Utrecht, con una doppia formazione di economia e di filosofia politica. Per un decennio Robeyns ha studiato il problema della ricchezza, alla quale – è la tesi principale del libro – dovrebbe essere applicato un limite massimo. L’autrice sostiene che se questo limite fosse fissato a 10 milioni, le energie finanziarie liberate permetterebbero di abolire dal pianeta la povertà e la fame, di lottare efficacemente contro il riscaldamento climatico, e di offrire alle giovani generazioni di che costruirsi un futuro prospero. Ma non sono questi i soli argomenti sottoposti al lettore contro la concentrazione di ricchezza che è avvenuta negli ultimi cinque decenni.

La concentrazione problematica

Nei primi capitoli Robeyns descrive la situazione attuale, con cifre ed esempi che aiutano a capire come ci siamo arrivati. Essenzialmente, negli anni 70 e 80, in concomitanza con lo sgretolamento del blocco dell’Europa dell’Est, il capitale, sostenuto dall’ideologia neoliberista, ha dominato senza contrasti ed è riuscito a modificare le regole del mercato, dello Stato sociale e della tassazione, fortemente a suo favore. La ricchezza ha così potuto concentrarsi verso l’alto, in una dimensione nuova e accelerata. Se ai più, i 12’700 miliardi detenuti dai 2’668 miliardari non dicono molto (in media 4,7 miliardi ciascuno), basti pensare che per ogni 100 dollari di valore prodotti tra il 2012 e il 2021, 54,40 sono andati all’1% più ricco, e 0,70 al 50% più povero.

Per Robeyns, nei successivi capitoli con situazioni documentate, ragionamenti chiari, presa in conto delle eccezioni ma anche di pesature e statistiche che le connotano come minoritarie, questa concentrazione è problematica perché è generalmente:

  • Perversa: perché mantiene poveri i poveri, impoverisce le classi medie, e arricchisce soltanto l’1% più ricco. Ciò vale sia nelle nostre società, sia nei rapporti tra Nord e Sud globale (basti pensare all’accrescimento dei grandi patrimoni durante la scorsa pandemia, o a quanto succede quotidianamente per l’estrazione di materie prime, Glencore – più grande contribuente della Confederazione – in testa).
  • Sporca: perché generalmente costruita sulle spalle di inquinamento, di sfruttamento, di abuso di posizione dominante, quando non di evidente e svergognata oligarco-cleptocrazia.
  • Nociva: perché permette di acquistare del peso politico e minaccia la democrazia, come per l’attuale situazione statunitense; perché essenzialmente investita in attività non sostenibili per l’ambiente, se non direttamente dannose per gli esseri umani: energie fossili, agroalimentare industriale, lavoro malsano, tabacco, armi; perché mantiene e fa crescere gli stessi super-ricchi in un ambiente psicologicamente tossico: in un capitolo di notevole empatia riassume delle interviste di miliardari e i loro commenti sulla vita squilibrata che conducono.
  • Immeritata: perché la maggioranza dei grandi patrimoni non è stata costruita con lavoro o scoperte utili per tutti, ma si è tramandata attraverso le generazioni (dagli anni 80 quasi senza imposte), per definizione senza elementi di merito. Nei rari casi nei quali sia dovuta a del talento, anche questo, secondo Robeyns, è generalmente associato a fortuna, privilegio, o ad altri meccanismi moltiplicatori (del tipo il vincente prende tutto, come per i compensi agli atleti). Inoltre, ammettendo pure una componente di merito, la protezione e l’accrescimento del capitale avvengono grazie a uno Stato che regola i rapporti e gli scambi tra i cittadini, che finanzia l’istruzione e la ricerca, e che accetta l’operare di una vera industria finanziaria al servizio del patrimonio. Quello stesso Stato la cui importanza è negata nella narrativa liberista, ma che poi si trova a riparare i cocci delle diverse crisi finanziarie, sanitarie o ambientali.
  • Inutile: questo è uno degli aspetti più incontrovertibili del saggio. Secondo il principio del decrescente beneficio marginale della ricchezza (per una famiglia con 5’000 franchi al mese, 1’000.- di aumento significano molto, mentre significano meno per una con 15’000.- e ancora meno per una con 50’000 franchi) i super-ricchi, oltre a un dato limite, non hanno bisogno dell’eccedente, mentre ne hanno grave e urgente bisogno i cantieri principali ai quali l’umanità deve far fronte. Parafrasando la sua metafora: in un mondo in fiamme, non sono le classi inferiori e medie che devono finanziare i pompieri, ma è l’1% superiore che deve e può farlo.


L’autrice Ingrid Robeyns

Massimo dieci milioni

Dove dovrebbe essere fissato il limite alla ricchezza? Anche qui il discorso di Robeyns è articolato e preciso: se il limite è diverso tra i diversi Paesi, all’interno della stessa nazione le ricerche mostrano un largo consenso (anche tra chi vota a destra o a sinistra): in Olanda, Paese dove non è difficile abitare in un luogo gradevole e sicuro, dove lo Stato provvede ai bisogni fondamentali (istruzione, sanità, invalidità e vecchiaia) e dove le leggi sul lavoro proteggono il tempo libero, si viene considerati ricchi con un patrimonio maggiore a 1 milione; negli Usa più di 10. Secondo Robeyns, un milione dovrebbe essere il limite morale da non superare: trova legittimo che questa sia la somma che si vorrebbe poter lasciare a un coniuge e a un figlio, come salvagente per degli imprevisti della vita (e considera eccezioni tra le quali il valore della propria residenza, che potrebbe essere inflazionato da meccanismi speculativi). Riconosce però che un tale limite sia difficilmente accettabile in termini di consenso, e identifica un limite politico di 10 milioni: al di sopra del quale si comincia a poter acquistare del peso politico – quando la ricchezza diviene nociva per la democrazia – e dove la marginalità di cui sopra è chiaramente operante.

Nessuna formula magica

Negli ultimi capitoli sui passi da intraprendere per arrivare a una “società limitariana”, nella quale l’economia “mantiene le disuguaglianze entro certi limiti, e utilizza le eccedenze dei ricchi per far fronte a bisogni urgenti e le azioni collettive necessarie”, Robeyns è conscia di non avere in mano una formula magica, e definisce il Limitarianismo “un ideale regolatorio” (come l’eliminazione della povertà): anche se non immediatamente raggiungibile, dovremmo almeno essere tutti d’accordo sul principio, e fare passi concreti per pervenirci. Identifica tre aree nelle quali agire: l’area strutturale (con politiche di alloggio, sanità, salari minimi a sostegno delle fasce meno favorite etc.); l’area fiscale (più ridistributiva); e l’area etica, nella quale ciascuno dovrebbe trovare problematico l’eccesso di ricchezza, e agire di conseguenza a titolo individuale. Robeyns elenca cinque punti principali (e una serie di corollari), ciascuno con ragioni convincenti e basate su fatti:

  1. Decolonizzare il nostro immaginario sia dall’ideologia neoliberale sia dalla dicotomia che non vi siano alternative tra il capitalismo nel quale viviamo o l’economia sovietica dei piani quinquennali. Cita modelli di società che riuscirebbero a fare a meno del capitalismo predatorio e della dipendenza da una crescita economica ecologicamente insostenibile, e che non sono certo un ritorno allo stalinismo. Anche su queste alternative il libro è arricchente, con proposte e referenze tratte dalla filosofia politica (come gli studi sul reddito di base incondizionato) e da scuole economiche innovatrici. Una lista di fonti aggiornata che conforta il lettore nella constatazione che sono stati elaborati dei progetti di società ben più auspicabili dell’attuale.
  2. Creare dei luoghi e dei tempi di incontro tra le diverse classi sociali, oggi virtualmente scomparsi, come un Servizio civile obbligatorio per tutti.
  3. Ristabilire un equilibrio tra i diversi poteri economici (come fra i tre poteri politici): capitale, lavoro, servizio pubblico, beni comuni etc., rinforzando i sindacati e la partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali o dell’azionariato, e con regole più eque negli scambi commerciali con i consumatori, ma anche tra nazioni.
  4. Rimodellare la fiscalità nei suoi vari aspetti: ristabilendo il peso che questa ha perso negli anni del neoliberismo. È evidente che i paradisi fiscali e la concorrenza fiscale vadano smantellati e le scappatoie chiuse, con un organismo internazionale che possa risolvere i contenziosi.
  5. Confiscare il denaro sporco e riparare i danni del passato, elementi sui quali il consenso – Robeyns afferma – sarebbe più difficile, ma cammino che alcune istituzioni hanno cominciato a perseguire.

La deriva cognitiva neoliberista

Robeyns si interroga anche sul perché abbiamo lasciato che le cose andassero in questo senso, e perché le voci in favore di una società più ridistributiva siano ancora deboli. Descrive con precisione la deriva cognitiva nella quale la narrativa del neoliberismo ci ha condotto: ignoriamo il grado delle disuguaglianze e i vantaggi di una loro diminuzione. Il cittadino comune sottostima fortemente la proporzione di ricchezza appartenente all’1% più abbiente e la proporzione di chi non possiede nulla o quasi (più del 50%). Sopravvaluta le opportunità di mobilità sociale – in realtà diminuita negli ultimi anni– e il danno che potrebbe apportargli il cambiamento di regole (come il dover imposte di successione più alte per una modesta eredità) rispetto al vantaggio che la sua stessa famiglia potrebbe averne come membro di una comunità meno disuguale. Sottovaluta a che punto le proprietà e le attività detenute dagli Stati, e i profitti a esse legate, siano diminuite nel tempo a favore del privato. Inoltre, oggi la maggioranza dei cittadini non ha conosciuto lo Stato sociale (la vera età dell’oro, secondo Piketty, di un dopoguerra decisamente più ridistributivo che voleva contrapporsi alla seduzione comunista), e non sa immaginare modelli al di fuori del capitalismo liberista.

‘La filantropia non è la soluzione’

Il libro è scritto con rigore (un quinto delle pagine sono note e referenze) e in modo fluido e chiaro. Ogni tesi è sostenuta da fatti, e argomentata in dettaglio riguardo alle critiche possibili (interessante il capitolo: “La filantropia non è la soluzione”), affrontate con semplicità, ma anche con finezza e un bagaglio di conoscenze impressionante. Robeyns riassume nel corso del saggio, con pertinenza e senza pedanteria, i principi fondamentali della filosofia politica, in particolare il contratto sociale tra cittadini e Stato, illustrando sia concetti classici come la teoria della giustizia di John Rawls, sia contributi più recenti. Capita raramente di leggere un saggio che susciti un tale sentimento di ammirazione, per l’acume e la profondità dei ragionamenti, per la qualità del lavoro documentario, ma soprattutto per il potenziale di utilità e prosperità che si trova nelle sue pagine.