Economia

Twitter e il rebus del pagamento dei contenuti

Musk e il nuovo conflitto di interessi che deve gestire

(Keystone)

Nella bulimia di messaggi che Elon Musk ha mandato da nuovo «editore» di Twitter ce n’è uno che descrive meglio di qualunque analisi il paradosso del passaggio dall’economia fisica a quella digitalizzata: in un fumetto postato si vede che una tazza di caffè Starbucks a 8 dollari fa felice il consumatore per 30 minuti. Gli stessi 8 dollari per 30 giorni, chiesti per la spunta blu di verifica dell’account che Musk vorrebbe introdurre, fanno invece piangere. Il post ha ricevuto 1,2 milioni di like nelle prime ore. Ma quanti di quei follower di Musk, che pure hanno apprezzato l’ironia, sarebbero disposti a pagare quegli 8 dollari? Questa è la domanda a cui Elon Musk-editore di Twitter dovrà dare una risposta. E potrebbe essere per lui una doccia fredda: per quanto sia innegabile che l’uomo più ricco del mondo sia un imprenditore di successo, per adesso ha venduto prodotti o servizi necessari: automobili Tesla, razzi SpaceX, satelliti della Startlink. La cosa più vicina al digitale che Musk ha venduto è stata Paypal, il servizio di pagamenti.

Il rompicapo

Fino ad ora Musk aveva prodotti molto innovativi ma con modelli di business solidi. Twitter è un’altra cosa: dipende dalla pubblicità online che comunque ha sempre faticato sul più editoriale dei social network. Non a caso lo stesso Musk ha argomentato proprio su questo («Non possiamo vivere di sola pubblicità») nel suo recente litigio con lo scrittore cult Stephen King che ha protestato per l’introduzione del pagamento degli 8 dollari (non a torto: correttamente King ha ricordato che Twitter ha bisogno di produttori di contenuti veri e sensati da fonti autorevoli come lui e che al limite dovrebbe essere Twitter a pagare per il loro lavoro. Se si parte dal giusto presupposto che il lavoro, anche in formato digitale, si paga allora la regola deve valere per tutti e tutto).

Se Musk risolverà il rebus del pagamento dei contenuti editoriali (oltre a quello della responsabilità editoriale che lui, in quanto «assolutista del free speech» non mostra di avere ancora chiaro) potrebbe essere una buona notizia per tutto il mercato digitale che rischia di diventare sempre di più una fabbrica del riciclo di informazioni non verificate e non verificabili. Lo stesso Musk è appena inciampato nello stesso problema diffondendo e poi cancellando fake news sulla recente aggressione al marito di Nancy Pelosi. Sempre in tema di responsabilità editoriali con quest’ultima mossa Musk ha mostrato di non aver ancora compreso il nuovo conflitto di interessi che deve gestire in quanto influencer di Twitter ma anche suo editore.

L’eredità di Stat.us

Per comprendere quanto sia intricata la risoluzione del modello di business vale la pena ripercorrere la sua complessa maturazione, sicuramente più interessante delle varie Facebook che sono diventate subito strumenti commerciali, crescendo molto ma pagandone le conseguenze in termini di credibilità: l’editoria vive una doppia natura, si serve degli introiti pubblicitari ma non per questo può permettersi di vendersi ad essi. Twitter un po’ lo ha sempre saputo. In origine avrebbe dovuto chiamarsi Stat.us, un servizio di sms per condividere, in un gruppo di amici, ciò che si stava facendo. L’iPhone non esisteva ancora, nemmeno nella testa di Steve Jobs: bisognava usare la scomoda tastierina qwerty del cellulare. Ed è per questo che i messaggi dovevano essere al massimo di 140 caratteri. Un numero che vale più di un indizio, anche se ormai da anni sono raddoppiati a 280. Il progetto di Stat.us venne buttato giù nel 2001 da Jack Dorsay su un foglio di un blocknotes a righe, fatto della stessa carta che ha contribuito a far quasi sparire dalle nostre vite. Anche se solo nel 2006 Twitter prese forma con @jack, Ev Williams, Biz Stone e il dimenticato dalla storia: Noah Glass. Cacciato sostanzialmente al momento della fondazione, dall’amico Dorsay, fu Glass a pensare al nome Twitter, anche se all’iniziò si curvò su Twttr, perché il sito twitter.com era occupato da un appassionato di ornitologia.

La pagina di Stat.us è incorniciata nel quartier generale della società a San Francisco su Market Street, la via che sfocia sull’iconico Ferry Building, dove Musk è entrato teatralmente con un lavandino. Ancora oggi se provate a digitare twttr.com planerete sul Twitter, il dominio venduto dagli ornitologi poche settimane prima del lancio ufficiale del nuovo servizio per 7 mila 500 dollari (il prezzo pagato per la proprietà del sito venne svelato da Ev Williams solo nel 2010). Il peggior affare della storia per chi ha venduto. La prima descrizione fu questa: «Usa twttr per restare in contatto con i tuoi amici. Se hai un cellulare e puoi mandare messaggi non ti annoierai più». Al tempo per usare il servizio sulla rete telefonica serviva un codice: 40404.

Le prime offerte

La prima offerta per Twitter arrivò nel 2007 da Yahoo ma venne considerata irricevibile dall’allora ceo Dorsay: 12 milioni di dollari. Andò molto meglio, in teoria, nel 2008: Mark Zuckerberg aveva iniziato fin da subito a corteggiare Dorsay per acquistare Twitter. Ma quando i tempi sembrarono maturi per l’offerta, nel 2008, Dorsay venne defenestrato e trasformato in un presidente «da campanello», cioè senza nessun ruolo effettivo nella società, da Stone e Williams. La goccia che fece traboccare il vaso furono le presidenziali del 2008: Dorsay pensava che la politica sarebbe stata un carburante efficace per Twitter. Con il senno di poi aveva ragione (Trump docet).

Ma al tempo ci furono solo 35 mila contatti sul sito che Twitter aveva creato per seguire le presidenziali americane che avrebbero portato Barack Obama a diventare il primo presidente di colore degli Stati Uniti. A quel punto Zuckerberg offrì mezzo miliardo di dollari al nuovo ceo Williams e a Biz Stone, il fondatore che fin dall’inizio pensò a Twitter come a un luogo virtuale per dare una voce a tutti. Il consiglio di amministrazione rifiutò l’offerta su indicazione dei due co-founder: il valore era, secondo loro, di almeno «un miliardo e in prospettiva molto di più». Avevano ragione visto che ora Musk ne ha pagati 44. Zuckerberg tentò di vendicarsi portando Dorsay dentro Facebook ma, nonostante le tentazioni, il presidente di campanello di Twitter rifiutò. E fece bene: di lì a poco fondò Square, uno dei primi servizi di pagamento con gli smartphone. Il primo tweet non si scorda mai, forse. Dorsay è stato il maratoneta e il furbo visionario del gruppo. Fu difatti @jack a scrivere il famoso primo tweet: «Just setting up my twttr» nel 2006 (sulla rete per gli sms).

Il primo vero successo di Twitter fu il terremoto a San Francisco nel 2007. Fu un test generale dell’utilità sociale del servizio. Ma durò un giorno. Per trovare la propria identità la società ha impiegato anni, ma forse non è casuale. «Il nostro obiettivo è quello di consegnare alle persone contenuti che siano rilevanti, istantaneamente. Sembra semplice, ma in realtà è estremamente complicato da tirar fuori in tempo reale.Vogliamo portare tutti più vicini a ciò che sta accadendo nel mondo». Parole di Dorsey. Dette nel 2012, dieci anni fa, quando tornò a guidare la società. Oggi sappiamo che Verba volant, Tweets manent. Ma resta il rebus del pagamento.

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