Economia

I due problemi senza globalizzazione

La politica parla di rimpatrio delle catene di fornitura ma sa poco o nulla di come funziona il mondo della produzione delle merci

La dipendenza dal gas russo viene spesso ricondotta a una sorta di simpatia della signora Merkel per Vladimir Putin

La globalizzazione è finita? Nelle scorse settimane abbiamo sentito le voci più diverse profetizzare, quasi con un pizzico di soddisfazione, l’imminente e inevitabile trapasso della mondializzazione dei mercati. Questa tesi si innesta su un dato di fatto e su una deduzione problematica. Il dato di fatto è la grande difficoltà di intrattenere scambi con l’Ucraina, isolata dalla guerra, e con la Russia, isolata dalla guerra economica scatenata, in risposta all’invasione, dai Paesi occidentali. La deduzione è che questi ultimi finiranno per rivedere le proprie relazioni: «Rimpatriare le filiere», cioè in qualche modo far sì che tutta la produzione si svolga fra Paesi ritenuti politicamente affidabili.

La proposta in qualche modo «suona bene» e infatti torna ciclicamente sulle labbra dei politici. Presenta però almeno due problemi. Il primo è che gli stessi che parlano di rimpatrio delle catene di fornitura poi sanno poco o nulla di come funziona la produzione di una certa merce. Si ragiona spesso come se l’approvvigionarsi di una certa materia prima, o il ricorrere a componenti prodotti in un certo Paese, obbedisse a considerazioni di carattere politico. La nostra «dipendenza» dal gas russo, per esempio, ormai viene ricondotta a una sorta di simpatia della signora Merkel per Vladimir Putin.

Il secondo problema, strettamente correlato al primo, è che questa visione presume che non solo la politica sappia metter becco nelle complesse catene di cooperazione da cui sortiscono i beni di consumo, ma che questo processo sia guidato dalle decisioni dei politici. Sono loro quelli che aprono e chiudono le rotte commerciali, che sviluppano proficue relazioni finanziarie, che traggono ispirazione da tecniche produttive e consumi osservati in altri Paesi per riorganizzare il proprio lavoro?

Recentemente Treccani ha pubblicato in italiano Gli ultimi re di Shanghai, un libro assai piacevole del giornalista Jonathan Kaufman. Kaufman è stato a lungo in Asia per il Wall Street Journal e si è messo sulle tracce di due grandi famiglie di ebrei babilonesi, i Sassoon e i Kadoorie, che da Baghdad prima si spostano in India e poi di lì a Shanghai e infine, dopo la lunga marcia di Mao, da Shanghai a Hong Kong (così almeno farà Lawrence Kadoorie, mentre Victor Sassoon dovrà riparare negli Usa). Una volta raggiunto il successo, i Sassoon prima e i Kadoorie poi ovviamente hanno a che fare con la politica. L’incontro e la consuetudine con grandi figure pubbliche (per inciso, quando il potere discrezionale di queste ultime era probabilmente maggiore di quanto non sia oggi, che è avvolto in tutta una fitta trama di regole e regolamenti), ovviamente tornano utili al grande businessman, che vuole mettere al sicuro i propri affari. Ma le decisioni fondamentali che li riguardano non vengono da lì.

Il capostipite della dinastia Sassoon, David, annusa gli affari mescolandosi «con i capitani al porto, parlando con loro in arabo, persiano e turco». È così che intuisce, per esempio, che «lo sviluppo dei cotonifici industriali in Inghilterra avrebbe probabilmente accresciuto la domanda di cotone indiano». Gli imprenditori fanno così tutti i giorni, anche se magari non frequentano le banchine. La differenza fra quei giorni e i nostri è che oggi sono molti di più coloro che intrattengono relazioni imprenditoriali col resto del mondo. La globalizzazione non è fatta solo di beni ma anche di servizi, buona parte dei quali (l’abbiamo imparato con la pandemia) possono essere forniti attraverso le tecnologie digitali.

La molla, però, è sempre la medesima. L’altro grande protagonista del libro di Kaufman, Elly Kadoorie, negli anni ’20 vede Hong Kong come un porto più sicuro di Shanghai. Le sue scelte dipendono in parte dal desiderio di evitare quello che oggi chiameremmo il «rischio Paese», di limitare l’effetto dell’incertezza politica sulle sue imprese. Ma, in ultima istanza, si fondano su opportunità di arbitraggio e da intuizioni sulla desiderabilità di una certa produzione e di un certo commercio. La scelta di elettrificare Hong Kong pare ovvia, col senno di poi, come tutte le grandi idee imprenditoriali. Non lo è, però, finché ancora di un’idea si tratta, e fintanto che non arriva qualcuno che ne intravede i contorni e ne fa una «cosa».

Elly Kadoorie sposò una donna inglese e avrebbe potuto trasferirsi a Londra. Non lo fa perché, per quanto ricco fosse diventato e per quanto estesi fossero i confini del suo Impero, nell’Inghilterra di inizio Novecento egli era e restava un ebreo. In quella stessa Shanghai in cui monta l’ostilità per gli stranieri e piano piano cominciano a farsi strada le idee socialiste, magari i cinesi guardano male i Kadoorie per quanto sono ricchi, ma sono del tutto indifferenti al loro essere ebrei. La Shanghai fra le due guerre è anche quella nella quale Cornelius Vander Starr sviluppa la sua compagnia assicurativa, che poi diverrà Aig. È una città dove sono il cosmopolitismo e l’apertura al nuovo a scatenare le energie imprenditoriali. Oggi, grazie alla rete, le distanze si sono accorciate e i rapporti sono infinitamente meno costosi che in passato. Il Covid ha accelerato questo processo. Il mondo è pieno di imprenditori che, nei luoghi più remoti, partono alla ricerca delle proprie convenienze, sviluppano nuovi rapporti di collaborazione, abbracciano idee e metodi nuovi. Fermare la globalizzazione è un eufemismo per dire: fermare quei tipi lì.

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