Economia

La guerra di Putin, ennesimo colpo alla globalizzazione

L’invasione dell’Ucraina fa fare un ulteriore salto all’indietro a un commercio internazionale già duramente colpito dalla pandemia

Verso un nuovo modello?
(Keystone )

L’idea che dove passano le merci non passano gli eserciti è splendida e ultimamente ci aveva scaldato cuori e menti. Da quando l’economista Frederic Bastiat formulò il concetto nella prima metà dell’Ottocento, era però già stata messa in discussione, in modo evidente, dalla guerra 1915-18 che pose fine alla prima globalizzazione dell’età industriale. Quel che sta succedendo in queste settimane, purtroppo, è tornato a farla vacillare.

Da e verso la Russia, sono passate grandi quantità di commerci da quando è crollato l’impero sovietico nei primi anni Novanta del secolo scorso: petrolio, gas, derrate alimentari in una direzione, prodotti finiti spesso di lusso, tecnologia, macchinari nell’altra. Ciò nonostante, l’esercito di Mosca si è messo in movimento e ha provocato il blocco del flusso dei commerci. Dobbiamo ammettere che, per quanto ci deprima, in certi momenti e con certi regimi gli scambi non fermano i carrarmati.

La globalizzazione era in ritirata parziale già prima dell’invasione dell’Ucraina, prima anche dello scoppio della pandemia. I commerci globali – uno dei grandi motori della mondializzazione delle economie – hanno iniziato a crescere rapidamente dalla metà degli Anni Ottanta e il loro valore è salito senza sosta fino al 2008, cioè alla grande crisi finanziaria. Hanno poi ripreso a salire con alti e bassi fino al massimo di quasi 19.500 miliardi di dollari nel 2018 per poi scendere. Fino a un minimo di 17.600 miliardi nel 2020, anno di piena crisi da Covid-19 e di lockdown.

La svolta

Uno degli assi portanti che hanno sospinto la globalizzazione e ne hanno modellato la qualità è stata la formazione, via via nel tempo, di catene di fornitura e di creazione di valore che hanno legato le diverse imprese e le diverse economie. La Nutella diventò un caso di scuola: in un vasetto entrano prodotti di Brasile, Nigeria, Malaysia, Turchia, Francia e Italia. Ma le catene del valore hanno riguardato un po’ tutto: sono indispensabili per i telefoni cellulari, per le automobili, per i computer, per le biciclette e via dicendo. È successo che queste filiere sono state scosse prima da fattori strettamente economici e sociali: per esempio lo scontento di molti lavoratori occidentali per produzioni di componenti fatte altrove, a basso costo, e poi importate con perdite di posti di lavoro.

Poi, sono arrivate ondate protezioniste in seguito alla crisi finanziaria del 2008 e successivamente alcune politiche di Donald Trump. In parallelo, il commercio si è anche in parte militarizzato: la Cina lo ha usato sempre più spesso per affermare i suoi obiettivi politici; Trump non si è tirato indietro.

Il colpo più forte, fino a un mese fa, è però arrivato dalla pandemia che ha messo sottosopra le forniture e la logistica dei trasporti. La meraviglia delle navi container che sono state il veicolo indispensabile agli scambi è entrata in crisi, le tantissime aziende manifatturiere che operano just in time, cioè con magazzini in entrata e in uscita al minimo, spesso si sono trovate con le gomme a terra. In più, i governi si sono accorti che procurarsi mascherine e forniture mediche attraverso filiere lunghe e poco affidabili era un rischio.

Le catene di approvvigionamento si sono accorciate

Le imprese hanno saputo reagire, quando non è stato impedito loro di farlo, spesso hanno cambiato fornitori e luoghi di approvvigionamento. Ciò ha trasformato le catene della globalizzazione create nel decennio finale del Novecento e nel primo decennio degli Anni Duemila: ora tendono ad accorciarsi. La Banca mondiale sostiene che queste catene hanno smesso di espandersi dopo il 2008: ora sono in contrazione.

Nel frattempo, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Wto, ha perso il suo ruolo di liberalizzatore degli scambi. Dal 1995, non ci sono più accordi di apertura globali, quelli che evitano litigi e tensioni tra Paesi, una volta firmati. Si è andati verso una miriade di accordi bilaterali e regionali, che in certe aree facilitano il commercio ma creano sempre più bolle chiuse ad altri. Con conseguenze economiche e geopolitiche: una frammentazione delle preferenze commerciali.

In parallelo, i flussi finanziari crossborder, un altro dei driver della globalizzazione, si sono ridotti dopo il 2008 oppure hanno cambiato natura, più prudenti sia da parte di chi effettua investimenti ma pronto a uscirne appena si prospetta una crisi, sia da parte dei Paesi che li ricevono, timorosi dell’instabilità creata da flussi repentini.

Un salto all’indietro

Nonostante gli ostacoli, negli scorsi decenni la globalizzazione ha prodotto una crescita straordinaria della ricchezza del mondo, ha fatto crescere i redditi medi di milioni di persone e fatto uscire dalla povertà assoluta almeno 1,2 miliardi di persone dal 1990 al 2020. E, sul lato dell’apertura delle comunicazioni internazionali, ha straordinariamente messo in contatto miliardi di persone che ora condividono idee, letture, musica, esperienze, scambi d’informazione, obiettivi. E modelli di vita. È ciò che rende la guerra del Cremlino fuori dal tempo e destinata alla sconfitta sui tempi lunghi: non sono più i cannoni a stabilire i destini.

Un ulteriore salto all’indietro

L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin vuole però dare un ulteriore colpo a questa globalizzazione che, nelle sue contraddizioni, ha beneficiato miliardi di persone. In parte ci riuscirà, costringerà a un salto all’indietro: nuovi confini si creeranno, fisici, economici, politici. Anche perché l’uomo del Cremlino non è il solo autocrate del mondo. Credevamo che il pianeta fosse diventato piatto, senza più barriere. Oggi registriamo che è tornata la Storia dei conflitti tra potenze e che è tornata anche la geografia delle frontiere.

Ci sarà da ricostruire una globalizzazione nuova, forse più limitata. Magari sarà divisa in blocchi economici, finanziari e politici separati da una grande muraglia. La Cina, grande beneficiaria di oltre tre decenni di mondializzazione, tende a chiudersi e a stare dalla parte di Putin. Ma sarà necessario tenere aperto il mondo almeno quanto più possibile, restringere il dominio di chi odia le società aperte. Quelle società che preferiscono i commerci agli eserciti.

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