Economia

Fed e Bce, prospettive capovolte

Se l’economia ricomincia a correre è perfettamente logico ridurre le misure d’emergenza e ricalibrare gli stimoli monetari

Il saluto tra Jerome Powell e Christine Lagarde (Keystone)

Perché mai la Fed dovrebbe ridurre gli acquisti di titoli quest’anno? Semmai dovrebbe essere la Bce a farlo, visto che l’economia d’Eurozona cresce più del previsto e anche l’inflazione galoppa a ritmi non lontani da quella americana. Un così rapido capovolgimento di prospettive è stupefacente, sebbene non sia propriamente raro nell’umorale comportamento dei mercati. «Tapering addio», titolavano parecchi giornali online americani venerdì 3 settembre, dopo la lettura dei dati sull’occupazione: appena 235mila nuovi assunti, contro i 720mila attesi.

Con questi numeri, Jerome Powell potrebbe rivedere l’intenzione di ridurre il quantitative easing in corso (pari a 120 miliardi di titoli acquistati ogni mese), scriveva anche il più compassato Wall Street Journal. L’enfasi degli operatori americani è tutta centrata sulla questione della piena occupazione, che appare ancora lontana, sebbene nessuno, e nemmeno la Fed, sappia dire quale sia il tasso di disoccupazione accettabile: trascurando che quel tasso è comunque sceso al 5,2% ad agosto (dal 5,4%) e che i salari orari sono aumentati del 4,3% in un anno e del 10% annualizzato negli ultimi tre mesi, segnalando una crescita dell’inflazione meno «temporanea» di quanto ci si ostini a credere.

Il dito puntato

Invece, quegli stessi operatori puntano il dito sull’inflazione in Eurozona che, al 3%, è un punto e mezzo più bassa di quella americana e sottolineano come la crescita economica sia al momento superiore a quella degli Stati Uniti. Il fatto che la disoccupazione nell’area euro sia ben più alta (al 7,6%) è ininfluente, poiché, a differenza della Fed, non è negli obiettivi della Bce contenerla.  Posto in questi termini, il dibattito appare ozioso o del tutto «irrilevante», secondo gli economisti di Bank of America.

Infatti, in Eurozona non è corretto parlare di tapering, poiché gli acquisti di titoli operati ora dalla Bce (circa 80 miliardi al mese) sono quelli previsti dal Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme), il programma d’emergenza varato nel marzo 2020 per far fronte alla pandemia e che dovrebbe concludersi a marzo 2022. Se l’economia ricomincia a correre, spiegano gli analisti di BofA in sintonia con Marco Valli di Unicredit, è perfettamente logico ridurre le misure d’emergenza e ricalibrare gli stimoli monetari. Secondo la gran parte degli investitori, la decisione di ridurre gli acquisti di titoli (Pepp) potrebbe essere annunciata a dicembre, ma quel che conta, osserva BofA, è che, terminato il programma d’emergenza, la Bce prosegua il proprio Qe, acquistando titoli per un ammontare di 40-50 miliardi al mese per un anno ancora.

Ma, alla Bce le cose sono un po’ più complicate che alla Fed. Agli uomini della Bundesbank, come pure ai governatori delle banche centrali austriaca e olandese, non piace affatto un’inflazione che corre decisamente sopra l’obiettivo del 2% e Jens Weidmann già calcola che saremo attorno al 4% nel quarto trimestre dell’anno. Si potrebbe osservare che, se la Fed accetta un aumento dei prezzi al 5,4%, perché «temporaneo», a maggior ragione la Bce dovrebbe tollerare un’inflazione al 3-4% per un po’ di tempo. Ma anche le faccende politiche sono più complicate in Eurozona, tanto più in vista delle elezioni federali in Germania di fine mese, il cui esito è assai incerto.

Nota Alessandro Tentori di Axa Italia come i temi dell’inflazione e di una politica monetaria che ha spinto i tassi d’interesse sotto zero «possano essere cruciali» per una buona parte dell’elettorato, tali da spostare voti dai partiti a maggior vocazione europeista (Spd e Cdu) verso quelli un po’ più scettici (Fdp e una parte della Csu) o persino a vantaggio degli ultranazionalisti di Afd. In ogni caso la prospettiva dello pseudo tapering della Bce non dovrebbe influenzare negativamente i mercati europei, specie le Borse che dipendono in larga parte dall’andamento di Wall Street. E se BofA ha riportato a neutrale il peso delle azioni d’Eurozona, Goldman Sachs pare volerle privilegiare grazie alla maggior crescita economica dell’Europa rispetto agli Stati Uniti. Dismesso l’ottimismo d’inizio anno, Goldman, nell’arco di un mese, ha tagliato per ben tre volte le previsioni di crescita americane: a metà agosto aveva troncato le stime del Pil del 3° trimestre dal precedente 8,5 al 5,5%; il 2 settembre le aveva ridotte al 3,5% e la settimana scorsa ha ribassato di un punto percentuale (al 5,5%) quelle del 4° trimestre.

Il risultato è che la crescita per l’intero anno è ora prevista «solo» al 5,7%. E al 5,7% la prevede anche Morgan Stanley, meno del consenso, fermo per ora al 6,3%, e ben sotto il 7% immaginato dalla Fed. Se le stime delle due banche americane venissero confermate, la crescita economica d’Eurozona, di gran lunga sottostimata a inizio anno, sarebbe in linea con quella degli Stati Uniti. E, cosa assai notevole, il Pil italiano, atteso in aumento del 5,9% secondo l’Ocse e di oltre il 6% da molti economisti, in ogni caso almeno doppio di quanto si pensasse a gennaio, sarebbe quest’anno superiore a quello americano. Un tale evento non lo si ricordava da oltre 40 anni. Bisogna tornare indietro al lontano 1976, quando il Pil crebbe del 6,65%, o al 1979 (+5,56%), per vedere numeri superiori di oltre un punto percentuale a quelli Usa. Eppure, la Borsa italiana, assieme alle altre piazze europee, dopo essere cadute ben più di Wall Street tra febbraio e marzo 2020, sono risalite del 70% circa dai minimi: un buon risultato, ma di parecchio inferiore al rialzo di oltre il 100% segnato dall’S&P 500.

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