Economia

L’ondata di sussidi e lo spettro dell’inflazione

L’amministrazione Biden mette in campo ancora più spesa pubblica. Il rischio? Surriscaldare l’economia, afferma Larry Summers

Biden
(Keystone)

Not overheating the economy, non surriscaldare l’economia. L’amministrazione Biden ha presentato un nuovo piano di stimolo per 1'900 miliardi di dollari, dopo i 3mila miliardi dello scorso anno. Il debito pubblico negli Stati Uniti era il 107% del Pil nel settembre 2019 ma il 131% nel settembre 2020. Forse, se non ci fosse stata la pandemia, i democratici avrebbero potuto attaccare Trump anche sul ricorso spregiudicato al deficit. Oggi però Biden sceglie di fare «di più» del suo predecessore e lo fa mettendo in campo (ancora) più spesa pubblica: rinnovo dei sussidi di disoccupazione per cinque mesi, più «ristori» alle piccole imprese (incluso un fondo di 25 miliardi per la ristorazione) e una nuova ondata di stimulus check, l’assegno che viene spedito a casa dei cittadini americani (1400 dollari). Non è ancora detto, invece, che del pacchetto farà parte la proposta di Bernie Sanders di aumentare il salario minimo a 15 dollari l’ora.

Insomma, la strategia è sostenere la domanda aggregata nella convinzione che la domanda condurrà ad aumento della produzione e, così, accrescerà la velocità di crociera dell’economia. Quanto avviene negli Stati Uniti ha sempre un rilievo al di fuori dei confini americani: in qualche modo, la Casa Bianca traccia la strada che poi anche il resto del mondo può percorrere. Proprio per questo, è rilevante che il piano sia incorso nelle critiche di Larry Summers, il cui orientamento politico non è certo ostile alla nuova amministrazione. Con un articolo sul Washington Post (‘The Biden stimulus is admirably ambitious. But it brings some big risks’, too, 4 febbraio), Summers ha messo in guardia dal rischio di «surriscaldare l’economia».

Timori per il programma di investimenti pubblici

Tracciando un paragone con lo stimolo di Obama, ha sottolineato come «i provvedimenti di stimolo adottati nel 2009 hanno fornito un aumento di 30-40 miliardi di dollari al mese nel corso di quell’anno: un ammontare pari a circa la metà della caduta del prodotto. Viceversa, con il pacchetto da 900 miliardi di dollari già promulgato – e in assenza di nuove misure di stimolo – il divario tra la produzione potenziale e quella effettiva si ridurrà, al termine del periodo di attuazione, da 50 a 20 miliardi di dollari al mese. Lo stimolo che viene proposto ammonterà a qualcosa come 150 miliardi di dollari al mese, anche senza considerare altri possibili provvedimenti a seguire. Si tratta di una somma pari ad almeno il triplo del deficit di produzione».

Ciò in un contesto nel quale la disoccupazione è già in discesa, la condizioni di politica monetaria sono molto lasche ed è possibile immaginare che ci siano già tutta una serie di spese e acquisti che i consumatori hanno dovuto rimandare a causa della pandemia (si pensi semplicemente alla contrazione della domanda di tutti i servizi legati al turismo) ma che aspettano solo le condizioni sanitarie opportune per verificarsi.

In parte, Summers è preoccupato che un stimolo tutto focalizzato sul sostegno alla domanda rallenti il programma di investimenti pubblici della nuova amministrazione. Lo è pure Tyler Cowen, che, su Bloomberg, ha sostenuto che «le società progressiste si basano fondamentalmente su una valorizzazione degli investimenti – in strutture fisiche, in software, in politiche sostenibili». Gli investimenti creano opportunità per le persone e spingono la crescita economica, per quanto non sia così facile, perlomeno ex ante, distinguere gli «investimenti pubblici saggi» da quelli che saggi non sono. Mitt Romney, senatore repubblicano dell’Arizona, ha messo sul piatto un’altra idea, sostegni generosi da 4200 dollari per figlio (che vanno a scendere all’aumentare di età e reddito familiare) per bilanciare la child poverty da tempo al centro del dibattito americano. Una misura «conservatrice» ma che spiazza la sinistra sul suo stesso terreno, quello della solidarietà.

Corona-inflazione?

Il succo del discorso di Summers è però un altro: «Vi è la possibilità che uno stimolo macroeconomico su una scala più vicina ai livelli [di spesa pubblica] della Seconda Guerra Mondiale che a quelli tipici di una recessione possa innescare pressioni inflazionistiche mai viste nel corso dell’ultima generazione, che avranno conseguenze sul valore del dollaro e sulla stabilità finanziaria». Anche un altro economista keynesiano come Olivier Blanchard ha suonato il campanello d’allarme. In una serie di tweet, Blanchard ha osservato che le misure potrebbero portare a un robusto rialzo dell’inflazione, superiore a quel 2,5% che già alcuni osservatori prevedono per l’inizio dell’anno prossimo. Lo stimolo alla domanda assieme con l’afflusso repentino di acquisti fin qui differiti per la pandemia condurrebbe a un rialzo dei prezzi, in condizioni monetarie molto lasche. Una fiammata costringerebbe la Fed ad alzare i tassi, in modo da più che bilanciare gli effetti del piano di stimolo. «Ne vale la pena?».

Anche in Europa, secondo gli analisti, nel 2021 l’inflazione potrebbe superare le stime della Banca centrale europea. In Germania, nel mese di gennaio, si è registrato un tasso dell’1%, il valore più alto da undici mesi. È difficile prevedere se avremo davvero una Corona-inflation. Ma magari dovremmo cominciare a nutrire qualche dubbio, sull’idea che basti moltiplicare sussidi e ristori per risolvere tutti i problemi. Se fosse così facile accompagnare un’economia sulla strada della crescita, perché non l’avremmo fatto anche prima del Covid?

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