Economia

Artigiani dall'Italia, dopo il lockdown torna la pressione

Lo dice l'Associazione interprofessionale di controllo che verifica il rispetto delle regole. E avverte: senza libera circolazione meno tutele

Il presidente dell'Aic Renzo Ambrosetti
15 settembre 2020
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Mentre le imprese ticinesi colpite dalla chiusura dei cantieri potevano beneficiare del lavoro ridotto e di altre agevolazioni, durante il lockdown «in Italia aziende e lavoratori non hanno toccato il becco d’un euro». E ora che tutto è riaperto, il presidente dell'Associazione interprofessionale di controllo (Aic) Renzo Ambrosetti teme che queste difficoltà economiche possano creare pressioni sul mercato ticinese, con artigiani chiamati da oltre frontiera disposti ad accettare retribuzioni e condizioni di lavoro che violano le regole locali; tanto più che nel frattempo «anche dipendenti ed ex dipendenti si sono messi in proprio». L'associazione incaricata d'identificare eventuali abusi si è già attivata per far fronte alla situazione, arrivando anche a ottenere una deroga dalla Segreteria di stato per l'economia (Seco) per visitare due volte in un anno la stessa attività. Questo perché, spiega Ambrosetti, «c'è il dubbio che sapendo di non essere più controllati non si rispettino più le regole del gioco». La situazione è stata discussa ieri a margine dell’assemblea generale che ha presentato i numeri sulle verifiche 2019 – ovvero prima che il coronavirus cambiasse il mondo – quando comunque si controllava già l'88% degli artigiani esteri nei settori regolati da contratti collettivi: dai muratori ai giardinieri, dai piastrellisti ai forestali. Resta il tasso più alto di tutta la Svizzera.

Disdire la libera circolazione? Irresponsabile

Ma visto che il 27 settembre si vota per la cosiddetta ‘iniziativa sulla limitazione’, la domanda sorge spontanea: la pressione alla frontiera – peggiorata dalla crisi – non si allenterebbe se si rescindessero gli accordi di libera circolazione? «Al contrario, sarebbe a maggior ragione assolutamente irresponsabile accettare in votazione popolare l’iniziativa dell’Udc che chiede l’abolizione degli accordi», sostiene Ambrosetti: «Si farebbero cadere immediatamente anche le misure d’accompagnamento, fondamentali per evitare gli abusi». Quelle misure che d’altronde hanno dato vita all’Aic. E «siccome ho i capelli bianchi», spiega il presidente, «ho già visto cosa accadeva con i contingenti: l’economia ha sempre avuto tutta la manodopera della quale aveva bisogno. La precedenza ai nostri, nei confronti anche di ditte estere che operano sul territorio cantonale, era un’illusione». Meglio allora, per Ambrosetti, «potenziare le nostre risorse e gli strumenti di protezione a nostra disposizione», ad esempio limitando le tempistiche per imporre il rientro di chi compie infrazioni e attraverso regole più stringenti sul versamento delle cauzioni.

Anche il segretario Nicola Bagnovini – l’associazione riunisce sindacati e imprenditori – ammonisce: «Non dobbiamo spingere per limitare la libera circolazione. Dobbiamo semmai limitare l’afflusso d'imprese estere che non rispettano le nostre regole». Per il direttore della Società svizzera impresari costruttori (Ssic) «fino a pochi anni fa si cercava la qualità svizzera. Questo aspetto va un po’ scemando, favorendo l’offerta al prezzo più basso, resa possibile da salari e costi della vita molto inferiori rispetto alla Svizzera». Un risparmio che però per Bagnovini rischia di penalizzare anche il committente: «Quando si chiama un artigiano nella propria abitazione, bisogna sempre pensare alle necessità di riparazioni e manutenzioni future. Avendo a che fare con ditte legate al territorio è ovviamente più facile riprendere ‘il filo del discorso’».

Controlli a tappeto

Spetta invece al capo ufficio Bruno Zarro fornire i numeri: 2'095 i controlli nel 2019 su 2’234 ditte notificate, con 648 infrazioni riscontrate: «Vale a dire che il 31% delle ditte controllate ha commesso delle violazioni alle disposizioni imperative previste dalle misure d’accompagnamento». Tramite controlli in loco e su documentazioni e buste paga, sono emersi abusi «riguardanti in particolare l’orario di lavoro e il salario minimo» previsti dai contratti collettivi svizzeri, dunque validi anche per i dipendenti delle ditte estere operanti in Ticino. Le sanzioni poi emesse dagli uffici competenti hanno generato un incasso di quasi 500mila franchi.

Un dato interessante è infine quello sulle ditte estere notificate: se le oltre 2’200 del 2019 sono in numero quasi identico a quello del 2017, nel 2018 si era scesi sotto le 2mila. Un calo temporaneo che si spiegherebbe anche con l’introduzione della Legge sulle imprese artigianali (Lia), nata proprio per contrastare la concorrenza sleale da oltre frontiera attraverso l’imposizione dell’iscrizione a un albo professionale; una misura di fatto affossata dai ricorsi della Commissione della concorrenza in quanto rischiava di tagliare fuori artigiani svizzeri attivi in altri cantoni. Si può dunque pensare che la legge fosse effettivamente utile a tenere sotto controllo eventuali abusi? Zarro relativizza: in quel frangente «sono stati trovati altri stratagemmi, come il ricorso ad agenzie interinali e società bucalettere sul nostro territorio. Per cui neanche la Lia ha potuto eliminare gli abusi». 

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