Mercati finanziari

Un luglio in volata per Wall Street

È stata messa in conto una rapida ripresa a 'V' non corrisposta dai fatti

È salito tutto a luglio: è volata Wall Street e s’è trascinata un poco anche le borse europee; sono cresciuti il Treasury, con il rendimento del decennale americano conseguentemente calato di altri nove punti allo 0,55%, minimo storico; è balzato il petrolio e, soprattutto, è proseguita la corsa dell’oro (+8,5%) che, ai 1.950 dollari di giovedì 30 luglio, ha stracciato il record di nove anni fa. Infine, l’euro s’è apprezzato sul dollaro con un balzo del 4,4% (a 1,178) come non si vedeva da un decennio. «La Fed ha reso gli ottimisti vincenti su tutte le attività finanziarie: dall’oro ai bond, dai titoli del credito all’immobiliare», è il commento sarcastico di Bank of America (BofA). In effetti, il corale rialzo di tutti i mercati finanziari cela contraddizioni che, prima o poi, dovranno emergere.

L’abbaglio di Wall Street

Wall Street ha messo in conto una rapida ripresa economica (a «V») che non è nei fatti, come dimostra il dilagare dell’epidemia negli Usa e la crescita dei disoccupati; e come dimostrerebbero i rendimenti dei titoli di Stato, inchiodati ai minimi del 23 marzo, quando l’S&P 500 perdeva il 33%. Gli operatori valutari stimano ora una più forte ripresa in Eurozona e dunque comprano euro, ma i loro colleghi dell’azionario continuano a preferire i titoli di Wall Street, saliti del doppio rispetto a quelli dello Stoxx.

E chi compra oro lo fa per ragioni contrastanti con l’euforia delle borse: perché è l’unica protezione rimasta, secondo BofA, perché è la «valuta di ultima risorsa» per Goldman Sachs o, semplicemente, perché così fan tutti, nell’empirica analisi di JPMorgan.

E davvero pare che così facciano tutti, anche perché le contraddizioni diventano meno stringenti se si considera l’opinione dominante sui mercati: ossia che la Fed terrà i tassi bassi per tanto, tanto tempo e semmai troverà il modo per rendere ancor più espansiva la propria politica, mentre il governo varerà altri, ingenti stimoli fiscali. L’oro non è mai stato uno strumento di protezione davanti a una recessione. Semmai lo è stato d’innanzi al risorgere dell’inflazione: pericolo che, al momento, nessuno prende in seria considerazione.

Ma c’è una forte correlazione (inversa) tra il prezzo dell’oro e i rendimenti reali dei Treasury: per esempio, quello del decennale Usa è oggi negativo per un intero punto percentuale (era a -0,65% a fine giugno). È vero che il metallo è un titolo senza cedola ma, quantomeno, non produce una perdita immediata come il T-bond. Così, chi compra oro seguita a comprare anche i Treasury, fidando nella Fed. Ma c’è dell’altro.

L’inflazione

Goldman Sachs ritiene che l’inflazione non sia definitivamente defunta: anzi, ritiene che l’espansiva strategia della Fed, il risorgere delle tensioni geopolitiche, l’incertezza politica  in America, uniti ai livelli record raggiunti dal debito pubblico, siano fattori potenzialmente inflazionistici, Su consideri  che le attese d’inflazione implicite nei titoli indicizzati (Tip) sono salite di circa 80 centesimi da maggio, sopra l’1,5%, cosicché il rendimento reale atteso del Treasury decennale sarebbe persino inferiore al -1%. Perciò Goldman prevede che l’oro salga  a 2.300 dollari fra un anno.

La straordinaria debolezza del dollaro, o la ritrovata forza dell’euro secondo Rabobank, sarebbe maturata proprio in questo contesto. Bryce Coward di Knowledge L.C. nota come esista una significativa correlazione tra l’andamento del dollaro e il deficit pubblico americano rispetto al prodotto interno lordo: la valuta s’era rafforzata nei primi anni del 2000, quando il bilancio era in forte attivo, e s’era indebolita dopo la grande recessione del 2008, quando il deficit federale aveva sfiorato il 10%.

La conclusione è che, con un disavanzo destinato a crescere oltre il 20% del Pil, il dollaro potrebbe scendere ai livelli visti tra il 2008 e il 2011: attorno a 70 per il Dollar Index (ora è a 93,4) e poco sotto 1,5 sull’euro, vale a dire che potrebbe perdere il 25% circa. Bryce trova un’altra curiosa connessione: il Dollar Index sarebbe «strettamente» correlato con il rapporto tra l’indice S&P delle materie prime e quello dell’information technology. Se il primo dovesse far meglio del secondo,  guai per la valuta Usa: ipotesi  che lascia perplessi.

Difficile dire come andranno le cose. Secondo Goldman, il dollaro potrebbe scendere fino a 1,25 sull’euro e per BofA, che fino a due mesi fa ne immaginava invece un rafforzamento, il mercato starebbe invece esagerando nella scommessa di un «troppo positivo scenario europeo» e in uno «troppo negativo» per gli Usa.

In effetti, pronosticare la fine del dollaro come valuta di riferimento è una tentazione che non pare giustificata,  in un ragionevole futuro. Allo stesso modo, l’entusiasmo per l’oro è in parte riconducibile al perverso comportamento da gregge che accomuna piccoli e grandi investitori: si compra un’attività finanziaria perché sale e perché così fan tutti. Un rialzo che si misura in un +28% da inizio anno (ma farebbe un 22% scarso senza l’interferenza del cambio) pare già un bel risultato.

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