Economia

Il futuro del lavoro fra robot e globalizzazione

Un colloquio col geniale David Autor, professore di economia al Massachusetts Institute of Technology: il lavoro non scomparirà, ma alcuni soffriranno

(Ti-Press)
30 novembre 2019
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Sono storie che si sentono spesso: l’impiegato sulla cinquantina rimasto a casa perché non sa ‘adoperare l’internet’, l’operaio la cui azienda ha chiuso perché la concorrenza cinese l’ha spazzata via. A volte gli economisti raccontano questi due fenomeni – rivoluzioni tecnologiche e concorrenza globale – con una certa freddezza, come se gli sconfitti fossero casi isolati. David Autor no. Sarà che prima di insegnare al Mit lui stesso è saltato da un ambito all’altro: psicologia, politiche pubbliche, informatica, corsi di formazione per i bambini poveri. “Ci ho messo un po’ a trovare quello che sapevo fare”, ci ha detto mercoledì a Lugano; e basterebbe questo a cogliere il tono spiazzante e (auto)ironico del suo approccio intellettuale, lo stesso che ha trasformato il modo in cui gli economisti pensano agli effetti di automazione e commercio. Autor era qui per il convegno sul futuro del lavoro organizzato dall’Ubs Center for Economics in Society, in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana.

Professor Autor, si sentono previsioni apocalittiche per il lavoro del futuro. C’è chi fra qualche anno s’immagina posti di lavoro dimezzati. In una decina d’anni saremo tutti disoccupati?

Assolutamente no. È legittimo preoccuparsi della ‘disruption’, ma il numero di posti di lavoro non calerà e l’automazione li potrà rendere più produttivi. Tanto più che in quasi tutti i Paesi sviluppati stiamo entrando in un lungo periodo di scarsità di lavoratori, a causa di fattori come l’invecchiamento della popolazione. Né tutti i settori saranno automatizzati dall’oggi al domani.

Alcuni impieghi, però, sono già vulnerabili.

A essere investiti dal cambiamento saranno soprattutto quei mestieri che comprendono compiti ripetitivi, come la produzione e certi lavori d’ufficio. Posizioni più creative, specialistiche o di responsabilità riceveranno semmai un aiuto dall’automazione.

In ogni caso, ci saranno molte persone che dovranno trovarsi un nuovo lavoro.

Sì. E quali saranno questi nuovi lavori non è così sicuro: in America, negli ultimi anni, abbiamo visto un declino nella produzione industriale e nei lavori d’ufficio che richiedono abilità medie. Ne è seguita una biforcazione: chi aveva già un’educazione superiore si è ulteriormente formato e la sua posizione si è mossa verso l’alto; gli altri si sono dovuti adattare a lavori manuali che richiedono meno abilità e sono pagati meno.

E in Svizzera?

Siccome tendete ad avere più persone impiegate in banche e assicurazioni, potreste essere più esposti all’adozione dell’intelligenza artificiale. Sia chiaro: l’intelligenza artificiale non è magica, ma permette di informatizzare anche procedure meno rigide e codificate rispetto a quelle automatizzate finora. Quei compiti nei quali finora i computer non erano così bravi, ma neppure gli esseri umani: chi a livello intermedio risponde a domande come ‘dovremmo concedere questa polizza?’ ‘c’è rischio di frode?’, ‘qual è il rischio di credito?”.

Quand’è che invece l’automazione è d’aiuto?

Quando è un complemento del lavoro, invece di un sostituto. Io ad esempio mi occupo di economia applicata: le nuove tecnologie mi permettono di risparmiare un sacco di tempo: tutti i calcoper li che ho svolto nei primi quindici anni della mia carriera, ora si potrebbero fare in quattro secondi sul suo smartwatch. Per me la tecnologia è un supporto, non una minaccia.

Sì, ma lei è professore in un’università prestigiosa. Che ne è di chi – ad esempio nel sistema binario dell’educazione Svizzera – già da adolescente viene formato per un solo, specifico lavoro?

Dovete essere fieri del vostro sistema educativo, molto meglio del sistema americano che è ‘college or bust’: o vai all’università o sei un fallito. Un disastro: mandiamo troppa gente al college e non investiamo abbastanza su tutti gli altri. Il vostro sistema continua a creare ‘colletti blu’ con molte abilità, dunque ben pagati, che poi hanno l’opportunità di perseguire ulteriori formazioni. Naturalmente c’è sempre il rischio di formare troppe persone in ruoli troppo specifici, ma la base di partenza per introdurre certi correttivi è ottima.

Oltre alla tecnologia, c’è chi perde il lavoro a causa della competizione dei mercati emergenti. Che ne è della narrazione secondo la quale la globalizzazione avrebbe fatto stare tutti meglio?

Beh, l’amara verità è che la teoria del vantaggio comparato dice che tutti i Paesi staranno meglio grazie al commercio, ma non che ogni persona al loro interno starà meglio. Al contrario: alcuni staranno peggio, anche se i vincitori saranno più dei perdenti. Negli Usa fra questi ci sono stati gli operai di alcuni settori. Il commercio peraltro si muove molto più velocemente della tecnologia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare. Quando inizi a progettare veicoli a guida autonoma, lasci alla gente decine di anni prima che il loro lavoro sia minacciato: molti nel frattempo andranno in pensione, molti giovani si formeranno per altri lavori; quando invece apri un mercato le conseguenze possono essere improvvise, del tipo ‘bomba che cade dal cielo’ su interi settori e imprese. Le sfide politiche immediate sono molto più difficili.

Quali sono le conseguenze sociali?

I costi ricadono soprattutto sui maschi senza laurea, anche se molto di più in America che qui: il loro ruolo sociale si è eroso, non riescono più a mantenere la famiglia. Il lavoro poi non è solo questione di soldi: è centrale per l’identità di una persona, fornisce uno scopo, autostima, una comunità di simili. Perdere questa posizione crea difficoltà ben oltre la questione finanziaria. Ed è per questo che la ridistribuzione di risorse non è abbastanza: non basta dare a chi li ha persi i soldi che guadagnava prima, tramite aiuti; questo non li farà sentire bene, si sentiranno ‘comprati’ per restare fuori.

Quindi dovremmo fermare il commercio internazionale, costruire muri?

Ovviamente no. Molti Paesi – inclusa la Svizzera – hanno goduto di enormi benefici per l’apertura a mercati come la Cina. E quando si chiudono frontiere e mercati, ci si trova esclusi da quelli degli altri. Pretendere di chiudere fuori tutti e tutto e portare indietro le lancette della storia è controproducente. Ma è legittimo voler controllare certi fenomeni, in modo da renderli meno sconvolgenti sul breve periodo: che si tratti dell’accesso cinese ai mercati o dell’immigrazione. Le frontiere aperte creano moltissimi benefici economici, anche in termini di innovazione e nuove idee. Ma ci sono anche difficoltà che non si possono ignorare.

Come si aiutano gli esclusi?

Suonerà ovvio, ma lo dico lo stesso: l’investimento nella formazione è fondamentale. Non solo i più giovani: il training per adulti funziona, purché non imponga di stare per ore a guardare un professore che scrive alla lavagna, ma offra un programma più concreto e pratico.

La politica può ancora fare qualcosa?

È importante trovare soluzioni per incentivare un investimento bilanciato su lavoro e sul capitale, non solo su quest’ultimo. Si tratta anche di ‘guidare’ la tecnologia, che non spunta fuori all’improvviso come si può pensare: spesso l’innovazione è guidata da incentivi fiscali, investimenti pubblici e nuove priorità sui problemi da risolvere. Non necessariamente, ad esempio, la priorità per l’intelligenza artificiale dev’essere quella di sostituire le persone, invece di aiutarle. Qui anche le scelte politiche sono importanti: il futuro non si inventa da solo. Auspicabile è anche qualche forma di Mitbestimmung, di compartecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, incluse quelle sull’innovazione e i suoi potenziali traumi.

Una parte della nostra società tende però a incolpare gli ‘esclusi,’ quasi fossero incapaci, pigri, immeritevoli.

L’idea di meritocrazia, se estremizzata, è pericolosa perché incolpa le persone per un destino che non possono controllare. Il nostro successo non dipende solo dai nostri sforzi, ma anche da fattori come l’investimento della nostra famiglia su di noi, la nostra resistenza alla fatica e alla malattia… Peraltro, il mercato premia in maniera sproporzionata minime differenze di abilità e talento: il fatto che Bill Gates guadagni cento volte quello che guadagna un altro non significa che sia cento volte più capace. Non penso che vorremmo una società nella quale il reddito sia considerato un indicatore proporzionale del merito, sarebbe una specie di distopia alla Ayn Rand (autrice del romanzo ‘The Fountainhead’, caro agli iperliberisti, ndr).

Qual è il futuro del welfare state? Serve un reddito di cittadinanza?

Il reddito di cittadinanza costerebbe moltissimo. Userei piuttosto le stesse risorse per sostenere la qualità del lavoro: standard di lavoro più elevati, maggiori salari minimi, orari più agevoli, sussidi alle imprese ove necessario.

E chi paga? C’è chi parla di ‘microtassare’ le transazioni finanziarie elettroniche.

Di certo il lavoro è eccessivamente tassato rispetto al capitale. Quando si impone una tassa bisogna anche chiedersi se questo ci aiuterà a correggere delle esternalità negative: nel caso della finanza questo potrebbe essere il caso, dato che certe transazioni possono creare instabilità. Ma su questo non sono un esperto.

E se tassassimo i robot?

È un’idea stupidissima! I robot non generano particolari esternalità negative: possono migliorare anzitutto la produttività invece di sostituire i lavoratori – come si vede anche in Svizzera – e sono strategici per rimanere un’economia innovativa. Una volta che si tassano i robot – e si tratta anche di capire come fare – questi costeranno di più, penalizzando la produzione interna e favorendo le importazioni. Peraltro l’intelligenza artificiale ha un potenziale di ‘disruption’ molto maggiore rispetto ai robot, anche se molti ne parlano come se fossero la stessa cosa.

Molti, colpiti da globalizzazione e innovazione, potrebbero favorire ricette populiste.

Il populismo cerca un gruppo al quale dare la colpa, che si tratti dei ricchi o dell’élite istruita o degli stranieri. Il sostegno di cui gode dipende anche dalla situazione economica: quando le persone si sentono escluse e declassate, tenderanno a sposare più facilmente questo tipo di posizioni. La nostra identità – il gruppo al quale sentiamo di appartenere: la nazione, la classe operaia… – è malleabile, ed è ridefinita molto rapidamente dagli shock economici. Improvvisamente ti senti tagliato fuori da quella che credevi la tua comunità, inizi a vedere nuovi nemici. Ed ecco che sposi tesi populiste. Una società dove si ritiene che il proprio lavoro sia apprezzato è meno permeabile ai populismi.

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