Economia

In mano ai banchieri centrali

Gli ultimi dieci anni sono stati contraddistinti da interventi straordinari degli istituti di emissione. Tutto giusto?

Ti-Press
28 aprile 2018
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Nel corso dell’ultima crisi economicofinanziaria le banche centrali delle principali economie mondiali hanno giocato un ruolo determinante nel fronteggiare la situazione. La crisi scoppiata nel 2008 si è infatti da subito contraddistinta per scenari a carattere pandemico, con conseguenti manifestazioni su scala globale, sui mercati immobiliari, finanziari e valutari. L’intervento degli istituti d’emissione ha riportato alla ribalta il ruolo di prevenzione e di contrasto delle crisi economiche, nei limiti del loro mandato istituzionale.

Il 2 maggio prossimo il presidente della direzione generale della Banca nazionale svizzera (Bns), Thomas J. Jordan, sarà per la prima volta all’Università della Svizzera italiana (Usi) e terrà una relazione sulle sfide con le quali la Bns si confronta. L’evento, introdotto dal rettore dell’Usi Boas Erez e dal decano della Facoltà di scienze economiche Patrick Gagliardini, si svolgerà nell’Aula magna (campus di Lugano) con inizio alle ore 17. L’incontro si colloca nell’ambito delle attività dell’Istituto di economia politica (Idep) dell’Usi e del suo Master in economia e politiche internazionali (Mepin).

Dell’azione straordinaria delle banche centrali abbiamo parlato con Edoardo Beretta, docente di economia presso l’Usi e la Franklin University Switzerland di Sorengo.

L’ultimo decennio passerà alla storia come quello in cui le principali banche centrali (compresa la Bns) hanno utilizzato al massimo la loro leva monetaria. Non credo sia mai successo prima che sia stata messa a disposizione dell’economia una così elevata quantità di moneta. Queste manovre sono servite veramente a uscire − a livello internazionale − dalla crisi?

Si deve premettere che la crisi economico-finanziaria globale dal 2007 ha costituito un episodio senza precedenti nella recente storia economica per 'effetti contagio' oltre che complessità di manifestazioni. Essa è scoppiata nel settore immobiliare americano con gli ormai noti mutui subprime, coinvolgendone l’ambito assicurativo-bancario e quello finanziario. Dopodiché la ‘slavina’ non si è curata di frontiere, colpendo le economie di Oltreoceano (dall’area euro fino al Giappone) laddove più deboli. Sarebbe però riduttivo affermare che la crisi europea abbia riguardato per lo più il debito (pubblico) e l’economia reale: in realtà, è stata ‘saggiata’ la tenuta della moneta unica. Di fronte a simili scenari pandemici le principali banche centrali − prima fra tutte, la Fed americana − non hanno potuto fare altro che iniettare liquidità nel sistema economico-finanziario (esposto a una pericolosa stretta creditizia), portando i tassi d’interesse ai minimi storici. A fronte di volumi elevati e prontezza d’intervento (pur a crisi in atto) la situazione è stata − più o meno efficacemente a seconda del Paese − tamponata. Le banche centrali sono consapevoli che il loro intervento da unico non sarà risolutivo nel mediolungo periodo (cfr. cosiddetta ‘neutralità della moneta’) e di qui gli appelli a riforme strutturali di carattere fiscale (e di bilancio) nelle rispettive economie. Certo è che gli istituti bancari centrali ben hanno saputo agire da ‘prestatori di ultima istanza’, allorquando nessun altro strumento di politica economica sarebbe stato così rapido.

Tornando a livello più locale. La Bns in questi anni ha sempre attuato una corretta politica monetaria? Mi spiego: la decisione di ancorare prima il tasso di cambio del franco all’euro e poi quella – comunicata in modo repentino – di sganciarlo perseguendo comunque l’obiettivo di svalutarlo nei confronti delle principali valute, è stata corretta?

Nelle fasi acute della crisi europea del debito la Bns si è confrontata con una tendenza al rialzo del tasso di cambio franco-euro ascrivibile al fatto che il franco svizzero sia stato un vero e proprio porto sicuro nelle turbolenze economico-finanziarie di quei giorni. La decisione del 6 settembre 2011 di introdurre una soglia minima di 1,20 per un euro − il comunicato stampa è forse fra i migliori nel panorama monetario recente − è stata coraggiosa e dettata dalla volontà di far deprezzare il franco svizzero, che (in caso opposto) avrebbe frenato il settore dell’export. La decisione di rimuovere tale tasso di cambio minimo con decisione del 15 gennaio 2015 è stata senz’altro repentina, ma ogni regime di cambio ‘controllato, pone di fronte al problema della ‘exit strategy’, cioè di come uscirne contenendo le conseguenti turbolenze sui mercati finanziari. La comunicazione istituzionale, che è un aspetto cruciale per le banche centrali, è divenuta più complessa a fronte dell’attuale globalizzazione: l’abbandono (o la modifica) di un regime di cambio è, in ogni caso, un fatto frequente come si può rilevare dall’Annual report on exchange arrangements and exchange restrictions, con cui l’Fmi traccia annualmente ogni movimento in tal senso.

Il fatto di avere tenuto il tasso di cambio ‘artificialmente’ a 1,20 per oltre tre anni non ha generato una falsa sicurezza nelle aziende dell’export?

Personalmente, ritengo che sia attribuita forse troppa rilevanza alla questione legata al tasso di cambio, che cambia appunto con il tempo. Che le sue tendenze al rialzo potrebbero costituire un problema è indiscusso, ma ciò è anche conseguenza della forza economica del ‘sistema Paese’. La stessa Germania si è espressa nel caso europeo, recentemente, per un euro forte, sebbene l’economia tedesca sia trainata dall’export che ne fa divenire il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti il più elevato al mondo. Il tasso di cambio, allora, è irrilevante? Naturalmente no, ma è la qualità (e insostituibilità) del prodotto da esportarsi a essere determinante.

Tra poche settimane si voterà sull’iniziativa ‘Moneta intera,’ che chiede di lasciare la potestà monetaria (monete, banconote e moneta bancaria) alla sola Bns escludendo le banche commerciali dalla ‘creazione’ di moneta attraverso l’esercizio del credito. Cosa pensa di questa proposta il cui intento è quello di rafforzare il sistema finanziario?

Senza entrare in singoli casi − mi riferisco, quindi, a quella sfera internazionale dove le caratteristiche siano le stesse − direi piuttosto che l’emissione monetaria debba in generale prestare attenzione a evitarne la sovracreazione con potenziali conseguenze d’instabilità economica. Credo che sia forse ancora più importante che ogni mezzo di pagamento abbia una copertura ‘reale’, cioè non si tratti di denaro immesso spontaneamente (in quanto scritturale), bensì serva allo scopo di monetizzare operazioni commerciali/finanziarie sempre ‘collateralizzate’ in termini reali: naturalmente, tali operazioni di copertura ‘reale’ devono potere avvenire anche dopo l’emissione stessa. Alla luce della sovraconcessione di prestiti (il caso subprime insegna, ndr), è il rispetto del principio di cui sopra (la copertura ‘reale’) a essere rilevante piuttosto che sottrarre al sistema bancario strumenti in suo possesso.

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