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Accogliere: una cosa giusta

19 febbraio 2019
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Da circa quattro anni mi occupo, a titolo volontario, di accoglienza delle persone migranti che giungono in Ticino. L’attenzione per gli altri è sempre stata al centro della mia vita professionale – dal lavoro che svolgo per la Fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities, ai progetti culturali che porto avanti in Burkina Faso, al mio ruolo di vicepresidente dell’associazione DaRe: la tematica dell’accoglienza è sicuramente uno dei miei cavalli di battaglia. In questi quattro anni di esperienza con l’associazione DaRe ho conosciuto un numero straordinario di persone che fanno del Ticino un cantone che si occupa degli altri: chi portando vestiti e mobili usati, chi mettendosi a disposizione per insegnare l’italiano o per il laboratorio di sartoria, chi portando scatole d’indumenti a Milano per chi dorme all’addiaccio, chi cucinando il giovedì a casa DaRe. Nel contesto di casa DaRe ho poi avuto modo di conoscere alcune persone eccezionali arrivate in Ticino da lontano: Tber, Amjad, Esayas, Zaki, Sennait, Hassan, Seare, Awatash, Abir, Lidia, Farzane, Misgana, Paikar, Hala, Selam, Fryat, Fadi, Kebra, Houdan, Max, Anes, Weiny, Nema, Naji, Oksana, Ismet, Vafa, Birtukan, Fateme, Indika, per citarne alcuni. La sfida dell’accoglienza è quella di stare insieme, tutti. E come si fa a stare bene insieme? Bisogna far incontrare le persone, dare la possibilità alla popolazione, e penso a tutta la popolazione, di rendersi conto che chi arriva da noi non è un semplice numero in un database cantonale o federale e men che meno siamo di fronte a un’invasione (ricordo che attualmente al centro di Rancate si contano in media 4 arrivi al giorno, decisamente pochi). Si tratta di famiglie, donne sole con i figli, uomini arrivati soli la cui famiglia attende il ricongiungimento e minori non accompagnati. Si tratta di individui, ognuno con la sua storia, da vedere, secondo me, anche come una risorsa. Spesso, infatti, si tratta di persone qualificate e con una grande esperienza professionale. Sono le mamme e i papà dei compagni e amici di scuola dei nostri figli, sono i nostri vicini di casa. Fanno e faranno parte, che lo vogliamo o meno, della nostra identità, soprattutto quella delle nuove generazioni. Occorre poi dare a tutti la possibilità di imparare la nostra lingua, penso soprattutto alle mamme che rischiano altrimenti di essere escluse dal meccanismo dell’integrazione. Bisogna poi fare in modo che possano esercitare una professione, valorizzando le competenze esistenti e garantendo una formazione a chi non ne fosse provvisto. Nel processo dell’integrazione l’anello debole non sono i giovani: la nostra scuola garantisce già l’accoglienza e l’integrazione, e la lingua italiana viene imparata rapidamente. Nel nostro sistema di accoglienza l’anello debole sono le persone dai 35 anni in su, che lasciano i loro paesi per garantire un futuro ai figli (alcuni arrivano insieme ai genitori, altri aspettano il ricongiungimento), ma che corrono un rischio concreto di non avere un futuro loro. È una generazione sacrificata, e questo non è ammissibile in un paese come il nostro, con una tradizione importante di accoglienza. Ritenendo che accogliere le persone sia una cosa giusta, vorrei citare Massimo Cacciari: “Giusto è chi prova l’intollerabilità di ogni sofferenza”.

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