Standing ovation al Lac per il suo 'Pane o libertà. Su la testa', omaggio a Jannacci, Gaber, Fo, De André, che 'Paolino' considera i suoi maestri.
Non dev’essere facile, di questi tempi, trovarsi di fronte a una platea dimezzata e cogliere dietro le mascherine il classico – e oggi più che mai sentito – “Facce ridere!”. Paolo Rossi, tuttavia, dimostra una gran voglia di tornare a fare il giullare, di trascinarsi dietro il suo pubblico; che addirittura coinvolge in una ritmatissima lezione di ginnastica all’inizio della sua perfomance 'Pane e libertà'. Il titolo viene dritto dritto da 'La peste' di Camus, ma Rossi ha un formidabile tridente di avvocati difensori: “Rubare è geniale, copiare è da coglioni. Lo diceva Dario Fo, riprendendo una battuta di Picasso che a sua volta fu ispirato da Shakespeare”. Lo spettacolo approdato al LAC vuol essere un omaggio a quelli che Rossi considera i suoi Maestri. Il Bardo, la tragedia greca, ma pure il già citato Premio Nobel, Gaber, De André e naturalmente Enzo Jannacci.
Da quest’ultimo Rossi sembra prendere quel modo di biascicare, di sussurrare in maniera quasi inintelligibile, salvo poi riprendere una dizione ferma e chiara per prorompere nella battuta. Non c’è un vero fil rouge, così dopo una struggente versione del 'Suonatore Jones', dal Faber si passa a Gianmaria Testa, suo grande e compianto amico: “E vanno via dalle mani e dai pensieri certi sogni più leggeri”, non a caso tratta da 'La maschera di Arlecchino'. Già, maschere e mascherine. “Noi la maschera l’abbiamo sempre indossata” – con chiaro riferimento alla Commedia dell’Arte – sin da quando questo Allen dei Navigli (ma guai a chiamarlo così, oggi!) muoveva i primi passi esibendosi ai Festival dell’Unità. “I rossi ci pagavano in nero – confessa – ma bisognava accontentarsi. Se andavamo dai neri, quelli ci avrebbero fatti rossi di botte”. Gioca con le parole anche ricordando una serata siciliana: “A Cerda c’è un monumento al carciofo che sembra un’opera di Giò Pomodoro”; ancora dalla Sicilia (S. Quasimodo, 'Alle fronde dei salici') prende spunto per ricordare come ai tempi del lockdown e di movida inibita “si prendeva lo spritz sui balconi per allontanarci da quegli armadi pieni delle nostre anime”. Racconta che alla Scala, dov’era figurante, qualcuno gli disse: “Qui c’è ancora il fantasma della Callas, che castiga chi non ha talento”. Si chiede se “con l’immunità di gregge il formaggio verrà migliore” e se la prende con Conte, il presidente del Consiglio che quando Trump si è ammalato “gli ha inviato un augurio a nome di tutti gli italiani”: lui si tira fuori!. “È stato uno di quei momenti in cui sento agitarsi nella pancia un intero Coro di Alpini gay!".
Sul palco Rossi è accompagnato dagli Anciens Prodiges, tre musicisti bardati in modo altamente improbabile, però “pronti a esibirsi ai matrimoni e ai battesimi, così come durante riunioni condominiali ad alta tenzione, per serenate d’insulti e persino per ninne nanne insurrezionali”. L’applauso finale si trasforma in una standing ovation: il pubblico sa che “si andrà incontro all’inverno del nostro scontento” (stavolta Paolino scippa dal Riccardo III), ma pare rinfrancato e con una certezza in più. Si può ancora ridere, anche in questi tempi grami. E meglio ancora se lo si fa in maniera intelligente.
Sua moglie Ombretta Colli era appena scesa in campo, schierandosi clamorosamente con la neonata Forza Italia, quando Giorgio Gaber giunse a Lugano col suo nuovo recital. Molti si aspettavano che Il Signor G approfittasse dei siparietti coi quali introduceva musiche e canzoni per commentare quella situazione particolare, per non dire imbarazzante. Invece niente: ci si dovette accontentare dell’ironia involontaria del brano “… e pensare che c’era il pensiero” e delle generiche invettive del suo testo: siamo “in un mare di parole che ci fanno bene e siam contenti. Ma parlan più che altro i deficienti!”. Anni dopo, lo rimproverò il Cabaret della Svizzera italiana: “Cert l’è dificil difent i tò pusizzion, quant la tò dona la vota Berluscon!”
Da quel ricordo nasce un paragone forse azzardato, però di fronte a un evento così eclatante e certo più tragico come la pandemia, va sottolineato come Paolo Rossi abbia invece reagito, eccome! Non solo è stato il primo, dopo il lockdown, a ri/convocare il pubblico in un vero Teatro, nel giugno scorso a Bolzano. In 'Pane e libertà' ha poi inserito alcune frecciate contro il nuovo decreto che ri/chiude cinema e teatri, sebbene sia acclarato che da lì non sia mai partito nessun focolaio di contagio. “Non fanno più come Göring: di fronte alla parola cultura, questi metton mano ai consigli d’amministrazione. E per loro è facile chiudere i teatri, tanto non ci sono mai entrati!”. Prima della dichiarazione finale (“Non so se s’è capito, ma io sto con tutti i lavoratori dello spettacolo”), l’invettiva più forte la prende in prestito dall’Enrico V shakespeariano: “Se non possiamo raccontare, chi ricorderà? Se non possiamo cantar ballate, che guerra sarà?”. Aggiungendo poi di suo “La memoria si nasconderà tra le chiappe della Storia!”