Spettacoli

Il diario di Marguerite Duras, 'Il dolore' tutto bellinzonese

Aspettando il Giorno della memoria, rivive domenica 26 gennaio grazie a Margherita Saltamacchia, Rocco Schira e Raissa Avilés, in una produzione Teatro Sociale

Una produzione Teatro Sociale Bellinzona (foto di Paolo Battaglia)
25 gennaio 2020
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Sul palcoscenico, a delineare le quattro mura, è steso un tappeto; i margini delimitano la casa in cui Marguerite attende di Robert L. È la coda della Seconda guerra mondiale, sono i fuochi che vanno spegnendosi e i fumi che si diradano; sono i giorni degli alleati che avanzano, della Berlino che brucia e della resistenza che resiste. Marguerite è Marguerite Duras, scrittrice e regista francese; Robert L. è il connazionale Robert Antelme, poeta, scrittore e partigiano, deportato a Buchenwald, poi a Dachau, marito di Duras. L’attesa del di lui ritorno dall’inferno dei lager è da lei descritta in una manciata di dense pagine autobiografiche che prende il nome di ‘Il dolore’, ricostruzione certosina di ogni istante speso alla ricerca di chi potrebbe essere “morto prounciando il mio nome. Quale altro, sennò?”. Robert L., però, potrebbe essere vivo. Ma il telefono non suona, qualunque sia la notizia che debba essere data.

‘È lei che ci ha suggerito il ritmo’

“Ho trovato questo Diario in due quaderni negli armadi blu di Neauphle-le-Château”, scrive Duras nelle note introduttive del libro, pubblicato in Francia nel 1985; “Come ho potuto scrivere questa cosa a cui ancora non so dare un nome, e che mi spaventa quando la rileggo?”. Quel “disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura”, parole che usa poco prima d’infilarsi nella fredda cronaca, è stato adattato da Margherita Saltamacchia, che de ‘Il dolore’, in versione teatrale – al Sociale in prima assoluta domenica 26 gennaio alle 17, quale migliore occasione per avvicinarsi al Giorno della memoria – è anche regista e protagonista, di bianco vestita nei panni della scrittrice francese.

Con Saltamacchia – vista in novembre sullo stesso palco nella personale rilettura de ‘Il fondo del sacco’ di Plinio Martini – ci sono gli attori-musicisti Rocco Schira e Raissa Avilés, ‘nei panni’ della Parigi dal ‘44 al ‘45, restituendoci suoni, echi, dialoghi, bisbigli e ogni altra voce che accompagna la protagonista lungo l’attesa. Il dolore, che per Duras è “fra le cose più importanti della mia vita”, è ricostruito con la massima fedeltà a partire dal titolo, in questa che è una produzione Teatro Sociale di Bellinzona, con in scena un terzetto bellinzonese.

«Non ho modificato nulla», spiega alla ‘Regione’ Margherita Saltamacchia. «Mi sono attenuta a quella che è la scrittura di Duras, sfoltendo qua e là in alcune parti. È lei che ci ha suggerito il ritmo, quasi militaresco, uno sfregare di lame, taglienti. Ogni due parole, un punto, specchio di uno stato d’animo freddo, cinico, amaro, giustificato dai fatti. Lei ci ha dettato il ritmo, lei ci ha suggerito quella che io chiamo la ‘partitura sonora dell’attesa e del dolore’, perché ogni rumore, ogni voce nel diario è descritta, in un interminabile appuntarsi tutto. Questo ritmo che traduce anche le fonti sonore, abbiamo pensato fosse necessario, doveroso restituirlo e ricostruirlo».

Flusso di voci

Schira e Avilés sono anche tutti coloro che Marguerite incontra nella spasmodica ricerca di Robert L. «Non essendo ‘Il dolore’ un monologo, e interagendo queste voci con la protagonista – continua Saltamacchia – non si poteva che renderle partecipi». La ripetitività a volte ossessiva – i “Chi è” iniziali, successivi al trillo del campanello di casa, o al telefono che squilla – «sono dentro la mente di Marguerite, insieme alle frasi che lei crede possano scaturire dalle risposte. La loopstation – apparecchio che permette registrazione e riproduzione in continuo di suoni, ndr – ci è sembrato il tramite perfetto per restituire questo flusso di voci».

Spiega tutto, a questo proposito, Rocco Schira, una carriera equamente suddivisa tra Brera, Zurigo e il Ticino, tra le arti visive e la musica (col violino davanti) e la recitazione: «Margherita si è rivolta a me per capire come un attore vorrebbe essere sostenuto musicalmente. Da un’idea di partenza tradizionale, lavorando sul potenziale tecnico e ancor più con l’aggiunta di Raissa, si sono uniti via via nuovi elementi che, anche pericolosamente, però aggiungono potenzialità meravigliose». Ovvero «dai tappeti sonori al giocare, tramite la loopstation, con le parole. E una terza linea, le parti maschili. Per mantenere questo equilibrio, sono sincero, mi ci vorrebbero sette braccia».

La ‘quinta corda’

Il violino e l’elettronica messe in campo da Schira  rendono l’escalation di disperazione della protagonista. Nella (a tratti) assillante ripetitività della loopstation finisce anche la voce di Raissa Avilés, attrice e cantante con origini messicane, con trascorsi a Barcellona legati al teatro fisico, e un album da solista, ‘Verso Suelto’. Avilés è, per la regista,  una quinta corda di violino o «un’estensione della partitura dell’attesa e del dolore». ‘Courage’, canzone inedita da lei scritta, fa da spartiacque della storia, laddove la storia serve il conto.

«È un brano che esce dal cassetto come gli appunti di Marguerite Duras – dice Avilés – era nel mio armadio blu. È stata tradotta in francese, e  riadattata per lo spettacolo in base a quanto avevamo in mente». ‘Courage’ giunge giusto al punto di rottura del crescendo sonoro in corso sin dall’inizio: «Si parte da linee melodiche molto semplici, che poi, come nella testa di Marguerite, si moltiplicano, e così i suoi pensieri». Fino ai limiti della follia, prima di fermarsi e «sfogliarsi, a strati, come una cipolla» (dai cui ‘La teoria della cipolla’, di Avilés). Fino a spegnersi, fino al vuoto.

Il nostro incontro con il cast lo chiude Saltamacchia, tornando al libro. «Colpisce come di una cinquantina di pagine che compongono ‘Il dolore’, quaranta parlani dell’attesa. Abbiamo voluto raccontare questo, il dramma di una donna che non sa vivere il presente perché costantemente proiettata verso quello che deve accadere. Almeno secondo lei».
E quel che deve accadere non è il finale che la filmografia sull’Olocausto è solita regalare (www.teatrosociale.ch).

 

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